da Furio Lambruschi » 18 feb 2023, 07:43
Buongiorno a tutti,
un po’ in ritardo, ma accolgo volentieri l’invito di Antonio.
Premetto che condivido le sue curiosità, tanto è vero che parlando qualche tempo fa al telefono con un noto collega e amico comune, mi è sorta spontanea la seguente domanda: “Ma a che cosa servono, secondo te, adesso, tre società scientifiche nell’ambito della terapia comportamentale e cognitiva, se pensiamo a quanto si sono ridotte, per non dire azzerate, le distanze tra le diverse prospettive concettuali e metodologiche in questo specifico ambito?”; aggiungendo pure: “Io credo che tu potresti essere la persona adatta ad avviare, oggi, questa operazione di unificazione dell’universo cognitivista”. Vi risparmio, ovviamente, sia il tono (garbato ma eloquente) che i contenuti della risposta del mio interlocutore, che giustamente deve aver deciso, in questa fase della sua vita, di dedicarsi ad altro. Era solo per notare come, in qualche modo, in molti di noi riecheggino i quesiti posti da Antonio; ma anche come la mia domanda andasse implicitamente in direzione del tutto opposta rispetto a chi ritiene che le opposte “fazioni” in gioco abbiano ormai esaurito ogni velleità e abbiano definitivamente ed irrimediabilmente realizzato che le differenze sono diventate insanabili. Anzi.
Le ricostruzioni storiche sull’evoluzione del cognitivismo clinico italiano (e non) potrebbero anche esserci di qualche utilità per dirimere la questione ma nella consapevolezza che, come si sa, la storia ha ben poco di oggettivo e molto di ricostruito soggettivamente: al punto che oggi Auschwitz potrebbe essere stata liberata non più dall’Armata Rossa come avevamo sempre pensato, ma dall’esercito ucraino, figuriamoci la storia della psicoterapia cognitiva! Diciamo, comunque, che i miei ricordi, così come la percezione della situazione attuale, non sono così dicotomici come quelli offertici da Giovanni nella sua ricostruzione. Ma, appunto, i ricordi sono quelle cose che servono a fare identità.
Perché, mi sono chiesto, mi viene da interrogarmi su questa curiosa frammentazione attuale e non sento, dentro di me, così insanabili tutte quelle differenze o “frizioni” di cui qualcuno parla? Credo che una prima risposta possa stare nel modello del funzionamento umano e relazionale, sufficientemente complesso e consolidato, che assiste non solo me ma una fetta importante dei colleghi ancora affezionati a questa Società; per di più con una straordinaria cornice concettuale evolutiva, come quella rappresentata dalla developmental psychopathology, con la moderna teoria dell’attaccamento (quella rappresentativa e meta-rappresentativa) ben assisa al suo interno. Già questo, io credo che consenta una diversa stabilità e possibilità di integrazione assimilativa per chi naviga nel moderno e cangiante mare cognitivista, tra improvvisi “nuovi” flutti protocollari e “sorprendenti” nuove “ondate”.
Terza ondata
Dovremmo essere proprio così sorpresi da una “terza ondata” che porta come sfondo concettuale la condivisibile RFT e che finalmente è riuscita a consolidare, fin nel mondo comportamentista, la centralità clinica di due concetti come quelli di consapevolezza e di accettazione? Più o meno da 30 anni molti di noi parlano di consapevolezza dei propri processi interni come motore centrale del cambiamento, peraltro spesso accusati di riproporre linguaggi e atteggiamenti terapeutici di sapore vagamento psicanalitico, ai quali era allergico e refrattario il mainstream cognitivo-comportamentale, o di “svalutare il ruolo della padronanza o mastery agentiva volontaria ed esecutiva sia del terapeuta che del paziente a favore di un paziente lavoro consapevolmente complesso di laboriosa scoperta clinica di un vissuto intensamente influenzato dalla storia personale dell’individuo e dal suo primordiale retaggio evoluzionistico, scoperta sostanzialmente non pianificabile se non molto parzialmente e secondo linee guida estremamente elastiche”.
Vorrei ricordare che il cognitivismo costruttivista, si è fatto per anni, portabandiera dell’assunto secondo il quale le emozioni negative vanno osservate e comprese, il paziente deve imparare gradualmente a riconoscerle, ad articolarle, ad accettarle, a condividerle nella relazione, a integrarle in modo armonico e coerente nel proprio senso di sé. Le emozioni critiche non sono cose brutte da combattere, ma preziosi indicatori interni, informativi su di sé, sulla propria identità personale. Impariamo a starci, piuttosto che evitarle.
Finché a un certo punto arriva, fragorosa, la “terza ondata” e si comincia a parlare di consapevolezza, di accettazione. Ma soprattutto, che piacere, finalmente, sentir parlare di “evitamento esperenziale” come meccanismo centrale della psicopatologia. Se affrontiamo i nostri sentimenti spiacevoli scacciandoli o cercando di controllarli, non facciamo che mantenerli. Cambia radicalmente il modo di rapportarsi ai propri stati interni. L’obiettivo della terapia non si concentra più sul tentativo di modificare direttamente i comportamenti o i pensieri, ma al contrario si punta maggiormente a sviluppare una consapevolezza e un atteggiamento non giudicante, di accettazione nei loro confronti. Le procedure cliniche mirano quindi sempre più a un incremento della sua “flessibilità psicologica”. Musica per le orecchie costruttiviste.
Su questo aspetto, del lavorare sui processi più che sui contenuti, direi che la prospettiva epistemologica e clinica evolutiva e costruttivista si colloca di default in naturale e perfetta sintonia con gli approcci della terza ondata e con la prospettiva mindfulness. Immagino piuttosto che tale passaggio possa aver rappresentato una sorta di “rivoluzione” per chi, fino ad allora armato prevalentemente di “disputing”, ha comunque sempre avvertito chiara la difficoltà ad intervenire in modo “protesico” per “cambiare comportamenti” o “sostituire convinzioni” e ora finalmente può lanciarsi con entusiasmo nel mondo dell’accettazione, della defusione e della consapevolezza, rimanendo insieme al paziente ad osservare i pensieri che svolazzano come nuvolette nella sua mente.
Rimane qualche differenza? Beh, immagino di sì. Per quanto mi riguarda, quei pensieri e quelle immagini che scorrono, posso vederle sì come nuvolette che vanno e che vengono nella mia mente, ma non proprio come eventi mentali “effimeri”. Quelle nuvolette sono il condensato di tutta la mia pesante storia d’attaccamento. Non sono solo pensieri che arrivano casualmente e se ne vanno casualmente dallo scenario della mia mente, sono i miei pensieri, sono le mie nuvolette/immagini, spinte dal vento talora dolce, talora impetuoso, che emana dalla mia storia e dai miei nuclei identitari. Va bene la processualità, ma una psicoterapia che non tenga conto di ciò che i nostri pazienti hanno in mente e che hanno imparato nella loro storia mi pare francamente paradossale.
Comunque sia, tutto questo non mi impedisce certo di parlare fruttuosamente, o come dice Antonio anche di fare a cervellate, con gli amici mindful, anzi! Quotidianamente lo faccio, con stima reciproca.
Processi e contenuti … Metacognizione
In questo senso, faccio un po’ fatica a comprendere che cosa intenda chi sottolinea un insanabile divario tra approcci processuali e approcci contenutistici. Il cognitivismo clinico costruttivista attuale non lavora affatto (o certamente non solo) sui contenuti rappresentativi. Chi, come il sottoscritto, lavora da anni in prospettiva attachment-based, ha da tempo imparato ad integrare la considerazione dei contenuti rappresentativi con il lavoro sul funzionamento e sull’integrazione dei sistemi di memoria. La moderna TA è praticamente tutta basata sui processi: tutti possiamo avere temi di pericolo o di perdita, ma il problema è come li processiamo, vale a dire quali sistemi di memoria ci hanno insegnato ad utilizzare le nostre figure d’attaccamento.
E tutto il lavoro “terzocentrino” sulle funzioni metacognitive, almeno per come io l’ho sempre recepito e utilizzato, non è forse focalizzato sugli aspetti processuali più che sui contenuti rappresentativi? E’ innegabile la differenza che c’è tra il concetto di metacognizione come inteso in Wells e dintorni (un articolato e intelligente up-date del classico problema secondario considerato in psicoterapia cognitiva fin dai tempi di Ellis e Beck); e come inteso invece dal terzocentro e dintorni, ma anche dalla stessa teoria dell’attaccamento e da tutto il ricchissimo filone di studi basato sulla mentalizzazione? Sono entrambe prospettive processuali, pur con focalizzazioni e spessori un po’ diversi. Ma perché non potrei interessarmi di entrambe? E inoltre, perchè “metacognitivo” e “relazionale” non potrebbero stare insieme e perchè, coloro che c’hanno messo il trattino in mezzo, dovrebbe fare prima o poi una drammatica scelta di campo e forse anche una abiura solenne?
La relazione
Come cognitivista è dalla fine degli anni ‘80 che mi definisco “relazionale” e non avrei alcuna intenzione di tornare indietro ora, né di fare alcuna abiura. Non potrei proprio farcela a vedere i sintomi fuori dalla dimensione interpersonale entro cui prendono forma e a rinunciare alla lezione bowlbiana, a un passo dalla pensione. E tanto meno vorrei che ci rinunciassero i miei allievi: li vorrei pensare capaci di applicare con competenza ed efficacia le procedure d’assessment, le variegate tecniche della terapia cognitivo-comportamentale, ma di farlo in modo non stereotipato e meccanico, ma creativo e flessibile, attraverso una relazione terapeutica attenta e sensibile verso i loro pazienti, consapevoli che ognuno di essi rappresenta un soggetto unico e irripetibile.
Non oso pensare che ci sia ancora qualche collega, finanche nell’ambito paleo-comportamentista, che non accetti di confrontarsi seriamente col problema della relazione. Virtualmente tutti gli approcci sono costretti a fare i conti col problema dell’analisi e gestione della relazione terapeutica, se non altro per la necessità di ottimizzare l’implementazione delle tecniche terapeutiche e per fronteggiare in qualche modo quel fenomeno trasversalmente riconosciuto e definito come “resistenza” al trattamento. E sembrano pure d’accordo sul fatto che vadano identificati i meccanismi sottostanti a tali fenomeni e i dispositivi per lavorarci in modo che il processo terapeutico possa riprendere a fluire in senso positivo.
Abbiamo salutato, a suo tempo, con grande entusiasmo i primi lavori di Safran e Segal (1990), a partire dai quali un filone importante del cognitivismo clinico cominciò esplicitamente a ragionare in termini di “schemi cognitivi interpersonali” e di “cicli cognitivi interpersonali” entro i quali il paziente tende a trascinare l’altro, attribuendo in tal modo un valore esplicitamente relazionale al concetto di schema. Sentir parlare di queste strutture schematiche come di “programmi per il mantenimento dello stato di relazione” fu per me un godimento infinito e un grande e rivoluzionario cambiamento di prospettiva. Alcuni anni dopo Safran e Muran (2000), e poi Safran e collaboratori (2002) ci regalarono uno splendido modello di analisi e di intervento (riparazione) sulle possibili rotture dell’alleanza di lavoro che possono presentarsi all’interno del processo psicoterapeutico. Modello che ancora rappresenta a mio parere una guida insuperata in questo ambito. C’è una letteratura sconfinata ormai sull’argomento, ivi compreso sull’influenza che i modelli d’attaccamento del paziente e del terapeuta hanno sul processo e sull’esito terapeutico, indipendentemente dalle tecniche utilizzate. C’è davvero qualcuno che ancora pensa di poter ignorare tutto ciò?
Alcuni contributi, direi proprio non sospetti, come quelli di Gilbert e Leahy (2007) e successivamente di Kazantzis, Dattilo e Dobson (2017), ma ogni giorno ne vediamo di nuovi, evidenziano come anche per la CBT sia ormai diventato imprescindibile ampliare in modo sostanziale il proprio campo d’indagine all’osservazione attenta e alla cura della relazione terapeutica, considerando sia i fattori specifici che quelli aspecifici del cambiamento. Sorprendentemente anche questi autori, nell’analizzare le diverse difficoltà che possono presentarsi all’interno della relazione terapeutica, sono costretti a prendere in considerazione in modo esplicito la storia evolutiva del paziente e la qualità dei suoi legami d’attaccamento, riconoscendo che senza questo tipo di prospettiva i suoi comportamenti all’interno del setting clinico finiscono inevitabilmente per essere letti superficialmente, rimangono poco comprensibili e tendono a produrre nel terapeuta risposte disfunzionali.
Certo in ambito cognitivista possono esserci delle differenze, anche marcate, riguardo all’enfasi che concettualmente e tecnicamente si può porre sulla relazione all’interno del processo psicoterapeutico: da una centralità anche un po’ talebana (con atteggiamenti talvolta un po’ svalutanti verso il piano tecnico), passando per gradazioni intermedie, fino al mortificarla come elemento del tutto accessorio (vedi l’ironica “questione di buona educazione”). Ma, di nuovo, mi chiedo: in che modo tutto ciò dovrebbe impedirci di discutere, dibattere e magari anche divertirci, come peraltro abbiamo visto negli ultimi congressi SITCC, con belle tavole rotonde (teoriche, di analisi di uno stesso caso clinico, vere e proprie sedute in diretta con “paziente”, ecc) di confronto tra diversi modelli psicoterapeutici?
Infine Antonio, e poi chiudo, non è detto che tutto si spieghi sempre e solo sul piano strettamente scientifico. Soprattutto questi ultimi anni ci hanno insegnato che se vuoi capire il perché di alcune scelte che sul piano sanitario o scientifico non sembrano del tutto comprensibili, logiche e chiare … spostati su un altro livello, che è quello più ampio di carattere sociale e di politica sanitaria, sul quale le nostre società scientifiche dovranno (e pare che alcune già lo stiano facendo) prendere posizione. Come è noto, è in atto un importante movimento di promozione dei protocolli di dimostrata efficacia in stile IAPT inglese, con una evidente parcellizzazione della professione psicoterapeutica in tante diversificate attività psicologiche che non richiederebbero una formazione psicoterapeutica vera e propria, bensì l’apprendimento di alcuni specifici protocolli volti ad alcuni quadri specifici. Qualche Regione sta già organizzando i propri piani sanitari in tal senso. Capisco che chi, da una parte, ha moltiplicato le facoltà di psicologia, oggi debba cercare di risolvere, dall’altra, il problema di questa enorme massa di psicologi spesso in cerca di una non troppo faticosa e costosa identità professionale. ENPAP e CNOP pare che stiano andando decisamente in questo senso. Un interessante esempio clinico di questa potenziale deriva è emerso, per chi l’avesse seguito, in un recente dibattito interno alla SITCC riguardante i “puberty blockers” e gli interventi psicologici nell’ambito della cosiddetta “disforia di genere”, ambito in cui la iper-specializzazione protocollata (ma a volte anche un po’ ideologizzata) sostenuta da alcune società scientifiche, porta talvolta ad interpretare i dati scientifici in modo, diciamo, assai peculiare, ma soprattutto a scotomizzare macroscopici disturbi di personalità spesso sottesi a tali quadri.
Mi chiedo, chiedo ad Antonio e chiedo a tutti soci SITCC: considerato il modo in cui noi abbiamo sempre inteso e interpretato la “funzione psicoterapeutica”, mai svincolata da un pensiero psicopatologico complesso e da una formazione personale complessa, qual è la nostra posizione in merito a tutto ciò?
Un caro saluto a tutti
Furio Lambruschi
Buongiorno a tutti,
un po’ in ritardo, ma accolgo volentieri l’invito di Antonio.
Premetto che condivido le sue curiosità, tanto è vero che parlando qualche tempo fa al telefono con un noto collega e amico comune, mi è sorta spontanea la seguente domanda: “Ma a che cosa servono, secondo te, adesso, tre società scientifiche nell’ambito della terapia comportamentale e cognitiva, se pensiamo a quanto si sono ridotte, per non dire azzerate, le distanze tra le diverse prospettive concettuali e metodologiche in questo specifico ambito?”; aggiungendo pure: “Io credo che tu potresti essere la persona adatta ad avviare, oggi, questa operazione di unificazione dell’universo cognitivista”. Vi risparmio, ovviamente, sia il tono (garbato ma eloquente) che i contenuti della risposta del mio interlocutore, che giustamente deve aver deciso, in questa fase della sua vita, di dedicarsi ad altro. Era solo per notare come, in qualche modo, in molti di noi riecheggino i quesiti posti da Antonio; ma anche come la mia domanda andasse implicitamente in direzione del tutto opposta rispetto a chi ritiene che le opposte “fazioni” in gioco abbiano ormai esaurito ogni velleità e abbiano definitivamente ed irrimediabilmente realizzato che le differenze sono diventate insanabili. Anzi.
Le ricostruzioni storiche sull’evoluzione del cognitivismo clinico italiano (e non) potrebbero anche esserci di qualche utilità per dirimere la questione ma nella consapevolezza che, come si sa, la storia ha ben poco di oggettivo e molto di ricostruito soggettivamente: al punto che oggi Auschwitz potrebbe essere stata liberata non più dall’Armata Rossa come avevamo sempre pensato, ma dall’esercito ucraino, figuriamoci la storia della psicoterapia cognitiva! Diciamo, comunque, che i miei ricordi, così come la percezione della situazione attuale, non sono così dicotomici come quelli offertici da Giovanni nella sua ricostruzione. Ma, appunto, i ricordi sono quelle cose che servono a fare identità.
Perché, mi sono chiesto, mi viene da interrogarmi su questa curiosa frammentazione attuale e non sento, dentro di me, così insanabili tutte quelle differenze o “frizioni” di cui qualcuno parla? Credo che una prima risposta possa stare nel modello del funzionamento umano e relazionale, sufficientemente complesso e consolidato, che assiste non solo me ma una fetta importante dei colleghi ancora affezionati a questa Società; per di più con una straordinaria cornice concettuale evolutiva, come quella rappresentata dalla developmental psychopathology, con la moderna teoria dell’attaccamento (quella rappresentativa e meta-rappresentativa) ben assisa al suo interno. Già questo, io credo che consenta una diversa stabilità e possibilità di integrazione assimilativa per chi naviga nel moderno e cangiante mare cognitivista, tra improvvisi “nuovi” flutti protocollari e “sorprendenti” nuove “ondate”.
Terza ondata
Dovremmo essere proprio così sorpresi da una “terza ondata” che porta come sfondo concettuale la condivisibile RFT e che finalmente è riuscita a consolidare, fin nel mondo comportamentista, la centralità clinica di due concetti come quelli di consapevolezza e di accettazione? Più o meno da 30 anni molti di noi parlano di consapevolezza dei propri processi interni come motore centrale del cambiamento, peraltro spesso accusati di riproporre linguaggi e atteggiamenti terapeutici di sapore vagamento psicanalitico, ai quali era allergico e refrattario il mainstream cognitivo-comportamentale, o di “svalutare il ruolo della padronanza o mastery agentiva volontaria ed esecutiva sia del terapeuta che del paziente a favore di un paziente lavoro consapevolmente complesso di laboriosa scoperta clinica di un vissuto intensamente influenzato dalla storia personale dell’individuo e dal suo primordiale retaggio evoluzionistico, scoperta sostanzialmente non pianificabile se non molto parzialmente e secondo linee guida estremamente elastiche”.
Vorrei ricordare che il cognitivismo costruttivista, si è fatto per anni, portabandiera dell’assunto secondo il quale le emozioni negative vanno osservate e comprese, il paziente deve imparare gradualmente a riconoscerle, ad articolarle, ad accettarle, a condividerle nella relazione, a integrarle in modo armonico e coerente nel proprio senso di sé. Le emozioni critiche non sono cose brutte da combattere, ma preziosi indicatori interni, informativi su di sé, sulla propria identità personale. Impariamo a starci, piuttosto che evitarle.
Finché a un certo punto arriva, fragorosa, la “terza ondata” e si comincia a parlare di consapevolezza, di accettazione. Ma soprattutto, che piacere, finalmente, sentir parlare di “evitamento esperenziale” come meccanismo centrale della psicopatologia. Se affrontiamo i nostri sentimenti spiacevoli scacciandoli o cercando di controllarli, non facciamo che mantenerli. Cambia radicalmente il modo di rapportarsi ai propri stati interni. L’obiettivo della terapia non si concentra più sul tentativo di modificare direttamente i comportamenti o i pensieri, ma al contrario si punta maggiormente a sviluppare una consapevolezza e un atteggiamento non giudicante, di accettazione nei loro confronti. Le procedure cliniche mirano quindi sempre più a un incremento della sua “flessibilità psicologica”. Musica per le orecchie costruttiviste.
Su questo aspetto, del lavorare sui processi più che sui contenuti, direi che la prospettiva epistemologica e clinica evolutiva e costruttivista si colloca di default in naturale e perfetta sintonia con gli approcci della terza ondata e con la prospettiva mindfulness. Immagino piuttosto che tale passaggio possa aver rappresentato una sorta di “rivoluzione” per chi, fino ad allora armato prevalentemente di “disputing”, ha comunque sempre avvertito chiara la difficoltà ad intervenire in modo “protesico” per “cambiare comportamenti” o “sostituire convinzioni” e ora finalmente può lanciarsi con entusiasmo nel mondo dell’accettazione, della defusione e della consapevolezza, rimanendo insieme al paziente ad osservare i pensieri che svolazzano come nuvolette nella sua mente.
Rimane qualche differenza? Beh, immagino di sì. Per quanto mi riguarda, quei pensieri e quelle immagini che scorrono, posso vederle sì come nuvolette che vanno e che vengono nella mia mente, ma non proprio come eventi mentali “effimeri”. Quelle nuvolette sono il condensato di tutta la mia pesante storia d’attaccamento. Non sono solo pensieri che arrivano casualmente e se ne vanno casualmente dallo scenario della mia mente, sono i miei pensieri, sono le mie nuvolette/immagini, spinte dal vento talora dolce, talora impetuoso, che emana dalla mia storia e dai miei nuclei identitari. Va bene la processualità, ma una psicoterapia che non tenga conto di ciò che i nostri pazienti hanno in mente e che hanno imparato nella loro storia mi pare francamente paradossale.
Comunque sia, tutto questo non mi impedisce certo di parlare fruttuosamente, o come dice Antonio anche di fare a cervellate, con gli amici mindful, anzi! Quotidianamente lo faccio, con stima reciproca.
Processi e contenuti … Metacognizione
In questo senso, faccio un po’ fatica a comprendere che cosa intenda chi sottolinea un insanabile divario tra approcci processuali e approcci contenutistici. Il cognitivismo clinico costruttivista attuale non lavora affatto (o certamente non solo) sui contenuti rappresentativi. Chi, come il sottoscritto, lavora da anni in prospettiva attachment-based, ha da tempo imparato ad integrare la considerazione dei contenuti rappresentativi con il lavoro sul funzionamento e sull’integrazione dei sistemi di memoria. La moderna TA è praticamente tutta basata sui processi: tutti possiamo avere temi di pericolo o di perdita, ma il problema è come li processiamo, vale a dire quali sistemi di memoria ci hanno insegnato ad utilizzare le nostre figure d’attaccamento.
E tutto il lavoro “terzocentrino” sulle funzioni metacognitive, almeno per come io l’ho sempre recepito e utilizzato, non è forse focalizzato sugli aspetti processuali più che sui contenuti rappresentativi? E’ innegabile la differenza che c’è tra il concetto di metacognizione come inteso in Wells e dintorni (un articolato e intelligente up-date del classico problema secondario considerato in psicoterapia cognitiva fin dai tempi di Ellis e Beck); e come inteso invece dal terzocentro e dintorni, ma anche dalla stessa teoria dell’attaccamento e da tutto il ricchissimo filone di studi basato sulla mentalizzazione? Sono entrambe prospettive processuali, pur con focalizzazioni e spessori un po’ diversi. Ma perché non potrei interessarmi di entrambe? E inoltre, perchè “metacognitivo” e “relazionale” non potrebbero stare insieme e perchè, coloro che c’hanno messo il trattino in mezzo, dovrebbe fare prima o poi una drammatica scelta di campo e forse anche una abiura solenne?
La relazione
Come cognitivista è dalla fine degli anni ‘80 che mi definisco “relazionale” e non avrei alcuna intenzione di tornare indietro ora, né di fare alcuna abiura. Non potrei proprio farcela a vedere i sintomi fuori dalla dimensione interpersonale entro cui prendono forma e a rinunciare alla lezione bowlbiana, a un passo dalla pensione. E tanto meno vorrei che ci rinunciassero i miei allievi: li vorrei pensare capaci di applicare con competenza ed efficacia le procedure d’assessment, le variegate tecniche della terapia cognitivo-comportamentale, ma di farlo in modo non stereotipato e meccanico, ma creativo e flessibile, attraverso una relazione terapeutica attenta e sensibile verso i loro pazienti, consapevoli che ognuno di essi rappresenta un soggetto unico e irripetibile.
Non oso pensare che ci sia ancora qualche collega, finanche nell’ambito paleo-comportamentista, che non accetti di confrontarsi seriamente col problema della relazione. Virtualmente tutti gli approcci sono costretti a fare i conti col problema dell’analisi e gestione della relazione terapeutica, se non altro per la necessità di ottimizzare l’implementazione delle tecniche terapeutiche e per fronteggiare in qualche modo quel fenomeno trasversalmente riconosciuto e definito come “resistenza” al trattamento. E sembrano pure d’accordo sul fatto che vadano identificati i meccanismi sottostanti a tali fenomeni e i dispositivi per lavorarci in modo che il processo terapeutico possa riprendere a fluire in senso positivo.
Abbiamo salutato, a suo tempo, con grande entusiasmo i primi lavori di Safran e Segal (1990), a partire dai quali un filone importante del cognitivismo clinico cominciò esplicitamente a ragionare in termini di “schemi cognitivi interpersonali” e di “cicli cognitivi interpersonali” entro i quali il paziente tende a trascinare l’altro, attribuendo in tal modo un valore esplicitamente relazionale al concetto di schema. Sentir parlare di queste strutture schematiche come di “programmi per il mantenimento dello stato di relazione” fu per me un godimento infinito e un grande e rivoluzionario cambiamento di prospettiva. Alcuni anni dopo Safran e Muran (2000), e poi Safran e collaboratori (2002) ci regalarono uno splendido modello di analisi e di intervento (riparazione) sulle possibili rotture dell’alleanza di lavoro che possono presentarsi all’interno del processo psicoterapeutico. Modello che ancora rappresenta a mio parere una guida insuperata in questo ambito. C’è una letteratura sconfinata ormai sull’argomento, ivi compreso sull’influenza che i modelli d’attaccamento del paziente e del terapeuta hanno sul processo e sull’esito terapeutico, indipendentemente dalle tecniche utilizzate. C’è davvero qualcuno che ancora pensa di poter ignorare tutto ciò?
Alcuni contributi, direi proprio non sospetti, come quelli di Gilbert e Leahy (2007) e successivamente di Kazantzis, Dattilo e Dobson (2017), ma ogni giorno ne vediamo di nuovi, evidenziano come anche per la CBT sia ormai diventato imprescindibile ampliare in modo sostanziale il proprio campo d’indagine all’osservazione attenta e alla cura della relazione terapeutica, considerando sia i fattori specifici che quelli aspecifici del cambiamento. Sorprendentemente anche questi autori, nell’analizzare le diverse difficoltà che possono presentarsi all’interno della relazione terapeutica, sono costretti a prendere in considerazione in modo esplicito la storia evolutiva del paziente e la qualità dei suoi legami d’attaccamento, riconoscendo che senza questo tipo di prospettiva i suoi comportamenti all’interno del setting clinico finiscono inevitabilmente per essere letti superficialmente, rimangono poco comprensibili e tendono a produrre nel terapeuta risposte disfunzionali.
Certo in ambito cognitivista possono esserci delle differenze, anche marcate, riguardo all’enfasi che concettualmente e tecnicamente si può porre sulla relazione all’interno del processo psicoterapeutico: da una centralità anche un po’ talebana (con atteggiamenti talvolta un po’ svalutanti verso il piano tecnico), passando per gradazioni intermedie, fino al mortificarla come elemento del tutto accessorio (vedi l’ironica “questione di buona educazione”). Ma, di nuovo, mi chiedo: in che modo tutto ciò dovrebbe impedirci di discutere, dibattere e magari anche divertirci, come peraltro abbiamo visto negli ultimi congressi SITCC, con belle tavole rotonde (teoriche, di analisi di uno stesso caso clinico, vere e proprie sedute in diretta con “paziente”, ecc) di confronto tra diversi modelli psicoterapeutici?
Infine Antonio, e poi chiudo, non è detto che tutto si spieghi sempre e solo sul piano strettamente scientifico. Soprattutto questi ultimi anni ci hanno insegnato che se vuoi capire il perché di alcune scelte che sul piano sanitario o scientifico non sembrano del tutto comprensibili, logiche e chiare … spostati su un altro livello, che è quello più ampio di carattere sociale e di politica sanitaria, sul quale le nostre società scientifiche dovranno (e pare che alcune già lo stiano facendo) prendere posizione. Come è noto, è in atto un importante movimento di promozione dei protocolli di dimostrata efficacia in stile IAPT inglese, con una evidente parcellizzazione della professione psicoterapeutica in tante diversificate attività psicologiche che non richiederebbero una formazione psicoterapeutica vera e propria, bensì l’apprendimento di alcuni specifici protocolli volti ad alcuni quadri specifici. Qualche Regione sta già organizzando i propri piani sanitari in tal senso. Capisco che chi, da una parte, ha moltiplicato le facoltà di psicologia, oggi debba cercare di risolvere, dall’altra, il problema di questa enorme massa di psicologi spesso in cerca di una non troppo faticosa e costosa identità professionale. ENPAP e CNOP pare che stiano andando decisamente in questo senso. Un interessante esempio clinico di questa potenziale deriva è emerso, per chi l’avesse seguito, in un recente dibattito interno alla SITCC riguardante i “puberty blockers” e gli interventi psicologici nell’ambito della cosiddetta “disforia di genere”, ambito in cui la iper-specializzazione protocollata (ma a volte anche un po’ ideologizzata) sostenuta da alcune società scientifiche, porta talvolta ad interpretare i dati scientifici in modo, diciamo, assai peculiare, ma soprattutto a scotomizzare macroscopici disturbi di personalità spesso sottesi a tali quadri.
Mi chiedo, chiedo ad Antonio e chiedo a tutti soci SITCC: considerato il modo in cui noi abbiamo sempre inteso e interpretato la “funzione psicoterapeutica”, mai svincolata da un pensiero psicopatologico complesso e da una formazione personale complessa, qual è la nostra posizione in merito a tutto ciò?
Un caro saluto a tutti
Furio Lambruschi