Lettera aperta ai colleghi della SITCC e della CBT-Italia
Moderatore: DAILA CAPILUPI [3284]
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Lettera aperta ai colleghi della SITCC e della CBT-Italia
Perché tre società diverse di terapia cognitivo-comportamentale:
lettera aperta ai colleghi della SITCC e della CBT-Italia.
Alcuni mesi fa, quando si venne sapere che diversi autorevoli membri della SITCC erano in procinto di fondare, insieme con altri colleghi provenienti dall’ AIAMC, una nuova società di terapia cognitivo- comportamentale, vi fu una breve fiammata di discussione dove i toni polemici, temo, finirono col rendere poco comprensibili le ragioni della scelta. A questa fiammata di polemica sembra essere succeduta una sorta di bella indifferenza simile a quella che i classici descrivevano avere i pazienti isterici nei confronti dei loro arti paralizzati.
Ora è passato un po’ di tempo, la CBT-Italia si è costituita e ha tenuto con successo il suo primo congresso mentre la SITCC si appresta celebrare il suo nuovo congresso finalmente libero dalle restrizioni legate alla pandemia. Forse è il tempo di cercare di capire prima di giudicare.
In fondo, cosa può chiedersi un giovane collega che pensa di accostarsi al cognitivismo se non: perché ci sono in Italia tre società di terapia cognitivo-comportamentale? Non sono più tanto giovane, ma la domanda me la pongo anch’io, accompagnandola con l’altra: cosa ha fatto sì che molti colleghi trovassero insufficiente il grande contenitore della SITCC?
Per carità! Non chiedo le ragioni di questo o di quel malessere personale, altrimenti la discussione rischierebbe di avvitarsi in uno psicodramma senza costrutto dove, dopo che ce le siamo dette di santa ragione, tutto finisce lì. Sono sinceramente curioso e desideroso di conoscere e poter discutere le ragioni scientifiche, teoriche, di indirizzo culturale che renderebbero necessario o anche solo utile stare in società diverse.
Perché in Italia c’erano l’AIAMC e la SITCC è una domanda cui è facile rispondere. Il motivo è nella storica discussione che contrappose comportamentismo e cognitivismo. La questione fu magistralmente riassunta da Skinner quando, in polemica con il cognitivismo affermò che nulla di quanto avviene “all’interno” dell’individuo può mai spiegare il comportamento. Al contrario per i cognitivisti era proprio quello che succede nella mente dell’individuo, credenze, scopi, schemi, significati personali ecc. quello che veramente contava. Quella storia molti di voi l’hanno vissuta in prima persona e non mi ci dilungo. Tuttavia molta acqua è passata sotto i ponti e il cognitivismo è esploso in una miriade di indirizzi in cui è difficile districare il filo rosso che li lega. Per questo dobbiamo discutere con franchezza e serenità su come si vanno aggregando e disgregando le diverse anime della terapia cognitiva e cognitivo-comportamentale. Per capire che cosa sta succedendo e dove stiamo andando. Attenzione! Non si tratta di un fenomeno solo italiano che può essere ascritto alla tradizione nazionale di dividersi tra Guelfi e Ghibellini e poi tra sottofazioni di questi. Per quel che ne so in diversi paesi si assiste ad un fenomeno di formazione di nuove società cognitivo-comportamentali. La terapia cognitiva si sta disarticolando definitivamente? Ci sono valide ragioni perché questo debba succedere? Forse è il caso di cominciare a porci queste domande.
Solo una nota finale. Da qualche breve colloquio avuto con i colleghi della CBT-Italia mi è parso di capire che la questione andrebbe inserita, invece, nel “Grande Dibattito” sulla psicoterapia, quello che oppone il modello contestuale-relazionale alla Wampold al modello medico-scientifico degli RCT. Secondo queste versioni la SITCC sarebbe ormai troppo schiacciata sul modello contestuale-relazionale e i colleghi critici con questo modello sentirebbero il bisogno di riunirsi in una società coerentemente orientata nell’altra direzione. Se fosse così il dibattito potrebbe davvero diventare molto interessante e potrebbe permettere a ciascuno di comprendere come si colloca rispetto a questioni che riguardano non soltanto la psicoterapia cognitiva ma tutto l’ambito della psicoterapia.
Però, dato che io non mi riconosco in nessuno dei due modelli vorrei avere l’occasione di discutere e anche di spiegare ai colleghi che abbracciano l’uno o l’altro dove, secondo il mio modesto parere, sbagliano. Spero che i colleghi che hanno costituito la CBT-Italia vorranno accettare questa mia amichevole provocazione in modo che possiamo iniziare a prenderci a cervellate.
Un caro saluto a tutti.
Antonio Semerari
lettera aperta ai colleghi della SITCC e della CBT-Italia.
Alcuni mesi fa, quando si venne sapere che diversi autorevoli membri della SITCC erano in procinto di fondare, insieme con altri colleghi provenienti dall’ AIAMC, una nuova società di terapia cognitivo- comportamentale, vi fu una breve fiammata di discussione dove i toni polemici, temo, finirono col rendere poco comprensibili le ragioni della scelta. A questa fiammata di polemica sembra essere succeduta una sorta di bella indifferenza simile a quella che i classici descrivevano avere i pazienti isterici nei confronti dei loro arti paralizzati.
Ora è passato un po’ di tempo, la CBT-Italia si è costituita e ha tenuto con successo il suo primo congresso mentre la SITCC si appresta celebrare il suo nuovo congresso finalmente libero dalle restrizioni legate alla pandemia. Forse è il tempo di cercare di capire prima di giudicare.
In fondo, cosa può chiedersi un giovane collega che pensa di accostarsi al cognitivismo se non: perché ci sono in Italia tre società di terapia cognitivo-comportamentale? Non sono più tanto giovane, ma la domanda me la pongo anch’io, accompagnandola con l’altra: cosa ha fatto sì che molti colleghi trovassero insufficiente il grande contenitore della SITCC?
Per carità! Non chiedo le ragioni di questo o di quel malessere personale, altrimenti la discussione rischierebbe di avvitarsi in uno psicodramma senza costrutto dove, dopo che ce le siamo dette di santa ragione, tutto finisce lì. Sono sinceramente curioso e desideroso di conoscere e poter discutere le ragioni scientifiche, teoriche, di indirizzo culturale che renderebbero necessario o anche solo utile stare in società diverse.
Perché in Italia c’erano l’AIAMC e la SITCC è una domanda cui è facile rispondere. Il motivo è nella storica discussione che contrappose comportamentismo e cognitivismo. La questione fu magistralmente riassunta da Skinner quando, in polemica con il cognitivismo affermò che nulla di quanto avviene “all’interno” dell’individuo può mai spiegare il comportamento. Al contrario per i cognitivisti era proprio quello che succede nella mente dell’individuo, credenze, scopi, schemi, significati personali ecc. quello che veramente contava. Quella storia molti di voi l’hanno vissuta in prima persona e non mi ci dilungo. Tuttavia molta acqua è passata sotto i ponti e il cognitivismo è esploso in una miriade di indirizzi in cui è difficile districare il filo rosso che li lega. Per questo dobbiamo discutere con franchezza e serenità su come si vanno aggregando e disgregando le diverse anime della terapia cognitiva e cognitivo-comportamentale. Per capire che cosa sta succedendo e dove stiamo andando. Attenzione! Non si tratta di un fenomeno solo italiano che può essere ascritto alla tradizione nazionale di dividersi tra Guelfi e Ghibellini e poi tra sottofazioni di questi. Per quel che ne so in diversi paesi si assiste ad un fenomeno di formazione di nuove società cognitivo-comportamentali. La terapia cognitiva si sta disarticolando definitivamente? Ci sono valide ragioni perché questo debba succedere? Forse è il caso di cominciare a porci queste domande.
Solo una nota finale. Da qualche breve colloquio avuto con i colleghi della CBT-Italia mi è parso di capire che la questione andrebbe inserita, invece, nel “Grande Dibattito” sulla psicoterapia, quello che oppone il modello contestuale-relazionale alla Wampold al modello medico-scientifico degli RCT. Secondo queste versioni la SITCC sarebbe ormai troppo schiacciata sul modello contestuale-relazionale e i colleghi critici con questo modello sentirebbero il bisogno di riunirsi in una società coerentemente orientata nell’altra direzione. Se fosse così il dibattito potrebbe davvero diventare molto interessante e potrebbe permettere a ciascuno di comprendere come si colloca rispetto a questioni che riguardano non soltanto la psicoterapia cognitiva ma tutto l’ambito della psicoterapia.
Però, dato che io non mi riconosco in nessuno dei due modelli vorrei avere l’occasione di discutere e anche di spiegare ai colleghi che abbracciano l’uno o l’altro dove, secondo il mio modesto parere, sbagliano. Spero che i colleghi che hanno costituito la CBT-Italia vorranno accettare questa mia amichevole provocazione in modo che possiamo iniziare a prenderci a cervellate.
Un caro saluto a tutti.
Antonio Semerari
Re: Lettera aperta ai colleghi della SITCC e della CBT-Italia
Buongiorno.
Essendo una nuova collega appartenente anche a questa realtà, La ringrazio per la sua riflessione che pone al centro il confronto culturale, piuttosto che lo scontro. Non è da tutti/e pensare e comportarsi intelligentemente.
Saluti
Denise Argelli
Essendo una nuova collega appartenente anche a questa realtà, La ringrazio per la sua riflessione che pone al centro il confronto culturale, piuttosto che lo scontro. Non è da tutti/e pensare e comportarsi intelligentemente.
Saluti
Denise Argelli
Re: Lettera aperta ai colleghi della SITCC e della CBT-Italia
Ringrazio Antonio Semerari per aver proposto il dibattito anche su State of mind dove potete trovare le mie considerazioni. Qui di seguito il link:
https://www.stateofmind.it/2023/02/soci ... fiche-cbt/
Un caro saluto a tutte e tutti
Giovanni Maria Ruggiero
https://www.stateofmind.it/2023/02/soci ... fiche-cbt/
Un caro saluto a tutte e tutti
Giovanni Maria Ruggiero
Re: Lettera aperta ai colleghi della SITCC e della CBT-Italia
Entro nel dibattito solo per correggere una affermazione errata in modo macroscopico di Ruggiero che mi riguarda "In questo senso va interpretata la concezione skinneriana contenuta nel volume “Verbal Behavior” del 1957 che il pensiero non ha significati ma solo effetti, concezione che a ben vedere è compatibile con quello di svolta corporeo – esperienziale di Dimaggio (“Corpo, immaginazione e cambiamento. Terapia metacognitiva interpersonale”, 2019)"
Io e i miei colleghi abbiamo sempre dato rilevanza alla componente cognitiva e di significato personale"
La mia precisazione non è rivolta a Ruggiero al quale avevo già sollevato il problema che non descrive il mio punto di vista correttamente. È solo per evitare che qualcuno pensi che quella frase rappresenta il mio pensiero e quello del miei colleghi
Giancarlo
Io e i miei colleghi abbiamo sempre dato rilevanza alla componente cognitiva e di significato personale"
La mia precisazione non è rivolta a Ruggiero al quale avevo già sollevato il problema che non descrive il mio punto di vista correttamente. È solo per evitare che qualcuno pensi che quella frase rappresenta il mio pensiero e quello del miei colleghi
Giancarlo
Re: Lettera aperta ai colleghi della SITCC e della CBT-Italia
sono molto contento delle belle email che hanno preso lo spunto dalla lettera di Dimaggio sui farmaci che bloccano la pubertà. tutto molto tempestivo e esauriente. In fondo gli interventi più belli e soddisfacenti per me sono stati quelli di due cognitivisti come Dimaggio e Lambruschi che del corpo in psicoterapia si sono occupati con grande attenzione e competenza. Quindi non mi interessano altre società di cognitivisti, mi basta la Sitcc e risponde pienamente a ciò che desidero, con un unico storico difetto, l'incapacità o l'autocensura sul toccare il corpo in psicoterapia, ma non sarà aumentando le società CBT che questo vuoto sarà colmato. Troppo lungo il guardare il manifestarsi di questa assenza intellettuale, forse anche una prima rassegna di scritti e di bibliografia potrà aiutare e trovare il bandolo della matassa.
Re: Lettera aperta ai colleghi della SITCC e della CBT-Italia
A tutti i colleghi e ad Antonio Semerari in special modo, salute!
Ad Antonio Semerari
"Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui …......, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu’esper, denan.
Dante: Purgatorio, canto XXVI
Raccontare il cognitivismo.
Bisogna per forza buttarla in filosofia? Bisogna per forza.
Ruggiero racconta una storia che spiega perché siamo qui e perché bisogna accettare ciò che è (ossia l'avvenuta separazione tra due tradizioni nascenti, a suo dire, da un'unica fonte).
Ne racconterò un'altra,
La nascita e lo sviluppo di idee come un fenomeno cultuale e intellettuale, la nascita di società e associazioni come un fenomeno storico-politico.
.
Due storie e una terza di lungo periodo.
Ne traccio le coordinate, perchè è impossibile nella “forma mail” fare più di questo.
La struttura portante (il lungo periodo):
Creazione di un paradigma che consenta il massimo della manipolazione e del controllo. (Autori di riferimento: Benjamin e Foucault, ma anche la scuola francofortese, in particolare Horkheim e Adorno. Da noi, recentemente, Agamben)
E' negli Stati Uniti che la storia comincia. Non è che la continuazione con altri mezzi di un conflitto storico tra potenze terrestri e potenze marittime, come insegna Carl Schmit, che condusse alle catastrofi belliche del 900 e si appropinqua a causare la prima del secondo millennio.
Nel nostro ambito è Watson fornisce il primo tassello, affermando che non c'è nessuna possibilità di studiare la mente in quanto è un oggetto scientificamente inesistente. La grande psicologia continantale di fine ottocento (psicoanalisi compresa), le scoperte della Gestalt, la fenomenologia verranno emarginate dal dibattito scientifico, nel nome di questo assunto, nel corso della prima fase del secondo dopoguerra.
La nostra storia vicina inizia con l'attacco alla credibilità della psicoanalisi: è Eysenk, con la consueta improntitudine che afferma che la psicoanalisi è provatamene inefficace ed è un'impostura. Hook (notoriamente finanziato dalla CIA) organizza un convegno a New York in cui la psicanalisi viene attaccata su piano filosofico. L'APA alla fine degli anni 70, si organizza per scrivere un manuale delle malattie mentali che esclude gli apporti della psicoanalisi e, in generale di quanto si muova fuori dal recinto comportamentista e biologizzante, spaccia al mondo intero il proprio manuale come pura convenzionalità, concepito per consentire di “parlarsi tra operatori”, una specie di esperanto, tutto sommato innocuo rispetto alla formulazione di idee, teorie etc, insomma “ateorico”. Eccolo comparire, invece, come “bibbia” della psicologia-psichiatria.
Quest'ultima manovra è centrale, perché una volta definito l'oggetto legittimo dello studio scientifico, tutto il resto segue.
Questa storia è descritta dall'ostracizzato Allen Frances.
Storia di un'idea: l cognitivismo e la “rivoluzione cognitiva”
Nello stesso spazio-tempo (Stati Uniti – Inghilterra, anni 50-60) nascono movimenti di opposizione all'affermarsi della possibilità di un totale controllo politico della “nuda vita” (come dirà Agamben) degli esseri umani, con o senza sfumature marxiste. Tra essi, in ambito accademico, accanto alla rivoluzione psichedelica di Leary, appoggiato inizialmente da CIA nell'ambito del famigerato “progetto MK-ultra e successivamente sfuggito di mano, un movimento politico-culturale inventa la “svolta cognitiva”.
La storia della svolta e di come venga neutralizzata è scritta nel bel libro di Bruner “La ricerca del significato”. La svolta nasce, appunto, come “ricerca del significato” e muore come modello computazionale della mente. Scrivono benissimo Gallagher e Zahavi: “Cosa è stata realmente la rivoluzione cognitiva? Non è stato altro che la prosecuzione dell'agenda comportamentista dettata da Watson”. Poi, richiamandosi a Costall (2004) continuano, la svolta in parola è rimodellata dal comportamentismo meccanicista, in generale è una messa in questione definitiva dell'introspezione. Fu così che il modello che finì per essere adottato fu quello computazionale; la visione generale della mente fu naturalistica e funzionalistica.
Qualcosa di nuovo spunta, però, alla fine degli anni novanta:
1. l'emergere del “problema difficile della coscienza” che non può che porsi in termini di “dimensione esperienziale”;
2. la consapevolezza che la cognizione umana è incarnata
3. la necessità, per studiare i processi neurali, di avere resoconti esperienziali.
In tentativo eliminativista di risolvere il problema “difficile” della coscienza (ad esempio Dennet ) è sul campo, ma stenta a prendere piede.
L'emboidiment della cognizione è sul terreno e tiene botta.
Un chiaro utilizzo dell'introspezione deve, invece, fare i conti con l'interdetto mai rimosso dell'attendibilità dei dati percettivi (apparenza Versus realtà)
CONCLUSIONE: Il cognitivismo è movimento che nasce come approccio scientifico allo studio della mente dell'uomo come sistema di significato e alla sua irriducibilità a mero meccanismo. La rivoluzione viene inghiottita e digerita dal sistema e da spinta all'umanizzazione della psicologia diviene riduzione della mente dell'uomo a sistema computazionale.
Storia di un processo sociale tra libertà e manipolazione (con le migliori intenzioni)
Nella temperie di cui si è discusso, mentre nei paesi anglosassoni si vive la crisi della psicoanalisi e la consapevolezza della pericolosità sociale e politica del comportamentismo, due geni, Vittorio Guidano e Giovanni Liotti si coalizzano in una originale versione dello sviluppo della conoscenza individuale e di una psicopatologia che essa deriva. La storia è nota ma cosa apportava veramente la loro teoria e perché (come giustamente sostiene Ruggiero) la SITCC è incomprensibile senza di loro (LORO DUE, TUTTI E DUE)?
Tutti abbiamo letto i loro scritti e molti sono stati loro allievi, ma, ripeto, credo non sia a tutti chiaro cosa comportava e comporta aderire a quell'antico punto di vista e perché qui (e proprio qui) il processo culturale diventa storia sociale.
La SITCC nasce a supporto dell'idea che alla crisi non solo scientifica ma sociale e politica del comportamentismo (vi ricordate tutti il film “Arancia meccanica”, vero?) si deve rispondere formulando un nuovo e diverso paradigma, dove all'innatismo freudiano e genetista e al costruttivismo radicale e nella sostanza nichilista, si poteva opporre un modello di sviluppo che partendo dalla considerazione di un essere umano la cui struttura era precostituita alla nascita (Sistemi Motivazionali innati, interpersonali e non interpersonali, biologicamente precostituiti), si evolveva nelle reazioni sociali e si veniva costituendo come essere individuale. l'Organizzazione(o Sistema) che si veniva formando condizionava la possibile successiva evoluzione del sistema, che Guidano definiva chiusura organizzazionale, e tutte le successive possibilità di cambiamento erano concepibili solo limitatamente alle possibilità di modifica senza perdita di identità del sistema (concetto di viabilità). Il complesso della concezione, nella versione di Guidano, salvaguardava l'identità dell'organizzazione,obbiettivo prima di qualunque sistema, pena la sua dissoluzione. Nella versione di Liotti salvaguardava, invece la natura universale delle forma di conoscenza e quindi la possibilità di averne una conoscenza scientificamente fondata.
La SITCC era la struttura che consentiva a questa loro idea di attraversare il tempo e sopravvivere.
Se è vera la mia ricostruzione, il modello aveva tagliato i ponti con la concezione comportamentista e la loro psicopatologia e la modalità di acquisizione della conoscenza e di cambiamento (compreso quello terapeutico) rendeva estranee, incoerenti e inadeguate le tecniche di apprendimento operativo e di estinzione, cavallo di battaglia del comportamentismo e, soprattutto, ne spiegavano l'insuccesso.
Il processo terapeutico era, perciò, un percorso di costruzione/rimodellamento dell'identità. A modificarsi non poteva che essere il sistema nel suo complesso e questo non poteva che avvenire nella relazione, esattamente come lo sviluppo umano che non è concepibile al di fuori di un contesto relazionale.
Fin qui siamo ancora all'interno di processo culturale.
MA
Tutto questo avveniva nella temperie della fine degli anni 70, e degli inizi degli 80 e segnava per così dire l'approdo di un processo sociale che si avviava al tramonto. Il mondo si muoveva vorticosamente in un'altra direzione e noi con loro.
Le ragioni efficienza, computabilità, coerenza con il sistema medico-biologico, richiesta di standard che prescindessero dalle differenze individuali e dl paziente e del terapeuta, rendevano non spendibile, né a livello accademico, nè a livello dei sistemi sanitari pubblici e privati le procedure terapeutiche coerenti con silema guidano-liottiano.
Se la musica cambia, necesse est navigare, e così abbiamo una psicopatologia che dovrebbe sostenere una coerente strategia terapeutica, ma le richiedeste sociali vanno in una direzione incompatibile con la coerenza . Come si dice altrove “gli uomini preferirono le terebra alla luce” ma senza dirlo.
La voce di Giancarlo Dimaggio si è alzata l'ultimo giorno dell'ultimo congresso SITCC (Bologna 2021) e a piedi nudi ha dichiarato: “E' giunta l'ora di dimenticare i padri” (non proprio così). E' ora di fare i conti, non con il modello relazionale etc . come dice Ruggiero, ma con l'evidenza che il mondo vuole altro e per stare al mondo bisogna accettarne le regole. Primum vivere , deinde philosophari . Qualcuno, come la CB-T lo fa con convinzione, qualcuno lo fa per convenienza.
In realtà l'evoluzione della SITTC attua nella forma più pura le previsioni della teoria dei sistemi complessi (e dei sistemi in generale): quando la permeabilità del sistema incorpora elementi non viabili, il sistema si scompagina e perde l'identità e con l'identità perde se stesso. Rimane un vuoto involucro. Non so se è questo che sta accadendo in SITCC , ma lo temo fortemente.
Un processo ulteriore che suggerisce Ruggiero è quello della schismogenesi: quando in un sistema si apre una frattura, questa è destinata ad allargarsi fino a produrre una completa separazione tra le parti. Non so se questo stia accadendo o sia già accaduto tra SITCC e CB-T
Ma la dicotomia di Wampold che cosa ha a che fare con questo? Nulla, a mio avviso.
Quello che è, invece, da capire è se lo sviluppo del cognitivismo clinico in Italia (in SITCC in particolare ) rimarrà e debba rimanere, come io ritengo, figlio di Guidano - Liotti ed epigoni, oppure cercare l'adozione da parte di Beck, Ellis, ed altri che non nomino, perchè tale paternità è un ostacolo all'entrata in società. C'entra pochissimo la questione del Dodo, che viene continuamente da alcuni colleghi e non da me riattivata in modo, a mio avviso, strumentale. C'entra per niente la questione della verifica empirica (si discute sull'appropriatezza delle metodologie, relativamente all'oggetto, non sulla opportunità-necessità di verifica-falsificazione.
Mi sentirei di rassicurare l'amico e maestro Antonio Semerari: in SITCC una parte non piccola non si sente di partecipare alla lotteria (gara?) modello contestuale-relazionale alla Wampold / modello medico-scientifico degli RCT. Entrambi sono spuri rispetto al modello.
CONCLUSIONE:
La SITCC, in quanto processo sociale, sembra sia andata assumendo la conformazione di “Area coloniale”
Un'area coloniale si contraddistingue per le seguenti caratteristiche:
Dipendenza da altre aree per la maggior parte dei saperi;
Produzione di beni rivolti ad efficienze esterne;
Omaggio di risorse intellettuali verso altre aree;
Subordinazione culturale.
Forse quel che enuncio è solo un rischio. Ad ogni buon conto, queste sono le strategie di uscita.
1. Ridurre la dipendenza;
2. Produzione a fini interni (per i pazienti, in primis);
3. Mantenimento delle risorse di personale qualificato (qualità delle scuole a marchio SITCC anche a costo di ridurre la produzione e i ricavi);
4. Rivitalizzazione culturale (uscire dal recinto della medicalità bieca, guardare fuori di noi stessi);
5. Interrompere lo scambio ineguale neurobiologia-psicologia/ psicoterapia (valore indiscusso della clinica)
Con questo concludo la lunga tirata. Ringrazio che è giunto in fondo.
Che la SITCC viva.
State bene.
Angelo Inverso
Ad Antonio Semerari
"Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui …......, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu’esper, denan.
Dante: Purgatorio, canto XXVI
Raccontare il cognitivismo.
Bisogna per forza buttarla in filosofia? Bisogna per forza.
Ruggiero racconta una storia che spiega perché siamo qui e perché bisogna accettare ciò che è (ossia l'avvenuta separazione tra due tradizioni nascenti, a suo dire, da un'unica fonte).
Ne racconterò un'altra,
La nascita e lo sviluppo di idee come un fenomeno cultuale e intellettuale, la nascita di società e associazioni come un fenomeno storico-politico.
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Due storie e una terza di lungo periodo.
Ne traccio le coordinate, perchè è impossibile nella “forma mail” fare più di questo.
La struttura portante (il lungo periodo):
Creazione di un paradigma che consenta il massimo della manipolazione e del controllo. (Autori di riferimento: Benjamin e Foucault, ma anche la scuola francofortese, in particolare Horkheim e Adorno. Da noi, recentemente, Agamben)
E' negli Stati Uniti che la storia comincia. Non è che la continuazione con altri mezzi di un conflitto storico tra potenze terrestri e potenze marittime, come insegna Carl Schmit, che condusse alle catastrofi belliche del 900 e si appropinqua a causare la prima del secondo millennio.
Nel nostro ambito è Watson fornisce il primo tassello, affermando che non c'è nessuna possibilità di studiare la mente in quanto è un oggetto scientificamente inesistente. La grande psicologia continantale di fine ottocento (psicoanalisi compresa), le scoperte della Gestalt, la fenomenologia verranno emarginate dal dibattito scientifico, nel nome di questo assunto, nel corso della prima fase del secondo dopoguerra.
La nostra storia vicina inizia con l'attacco alla credibilità della psicoanalisi: è Eysenk, con la consueta improntitudine che afferma che la psicoanalisi è provatamene inefficace ed è un'impostura. Hook (notoriamente finanziato dalla CIA) organizza un convegno a New York in cui la psicanalisi viene attaccata su piano filosofico. L'APA alla fine degli anni 70, si organizza per scrivere un manuale delle malattie mentali che esclude gli apporti della psicoanalisi e, in generale di quanto si muova fuori dal recinto comportamentista e biologizzante, spaccia al mondo intero il proprio manuale come pura convenzionalità, concepito per consentire di “parlarsi tra operatori”, una specie di esperanto, tutto sommato innocuo rispetto alla formulazione di idee, teorie etc, insomma “ateorico”. Eccolo comparire, invece, come “bibbia” della psicologia-psichiatria.
Quest'ultima manovra è centrale, perché una volta definito l'oggetto legittimo dello studio scientifico, tutto il resto segue.
Questa storia è descritta dall'ostracizzato Allen Frances.
Storia di un'idea: l cognitivismo e la “rivoluzione cognitiva”
Nello stesso spazio-tempo (Stati Uniti – Inghilterra, anni 50-60) nascono movimenti di opposizione all'affermarsi della possibilità di un totale controllo politico della “nuda vita” (come dirà Agamben) degli esseri umani, con o senza sfumature marxiste. Tra essi, in ambito accademico, accanto alla rivoluzione psichedelica di Leary, appoggiato inizialmente da CIA nell'ambito del famigerato “progetto MK-ultra e successivamente sfuggito di mano, un movimento politico-culturale inventa la “svolta cognitiva”.
La storia della svolta e di come venga neutralizzata è scritta nel bel libro di Bruner “La ricerca del significato”. La svolta nasce, appunto, come “ricerca del significato” e muore come modello computazionale della mente. Scrivono benissimo Gallagher e Zahavi: “Cosa è stata realmente la rivoluzione cognitiva? Non è stato altro che la prosecuzione dell'agenda comportamentista dettata da Watson”. Poi, richiamandosi a Costall (2004) continuano, la svolta in parola è rimodellata dal comportamentismo meccanicista, in generale è una messa in questione definitiva dell'introspezione. Fu così che il modello che finì per essere adottato fu quello computazionale; la visione generale della mente fu naturalistica e funzionalistica.
Qualcosa di nuovo spunta, però, alla fine degli anni novanta:
1. l'emergere del “problema difficile della coscienza” che non può che porsi in termini di “dimensione esperienziale”;
2. la consapevolezza che la cognizione umana è incarnata
3. la necessità, per studiare i processi neurali, di avere resoconti esperienziali.
In tentativo eliminativista di risolvere il problema “difficile” della coscienza (ad esempio Dennet ) è sul campo, ma stenta a prendere piede.
L'emboidiment della cognizione è sul terreno e tiene botta.
Un chiaro utilizzo dell'introspezione deve, invece, fare i conti con l'interdetto mai rimosso dell'attendibilità dei dati percettivi (apparenza Versus realtà)
CONCLUSIONE: Il cognitivismo è movimento che nasce come approccio scientifico allo studio della mente dell'uomo come sistema di significato e alla sua irriducibilità a mero meccanismo. La rivoluzione viene inghiottita e digerita dal sistema e da spinta all'umanizzazione della psicologia diviene riduzione della mente dell'uomo a sistema computazionale.
Storia di un processo sociale tra libertà e manipolazione (con le migliori intenzioni)
Nella temperie di cui si è discusso, mentre nei paesi anglosassoni si vive la crisi della psicoanalisi e la consapevolezza della pericolosità sociale e politica del comportamentismo, due geni, Vittorio Guidano e Giovanni Liotti si coalizzano in una originale versione dello sviluppo della conoscenza individuale e di una psicopatologia che essa deriva. La storia è nota ma cosa apportava veramente la loro teoria e perché (come giustamente sostiene Ruggiero) la SITCC è incomprensibile senza di loro (LORO DUE, TUTTI E DUE)?
Tutti abbiamo letto i loro scritti e molti sono stati loro allievi, ma, ripeto, credo non sia a tutti chiaro cosa comportava e comporta aderire a quell'antico punto di vista e perché qui (e proprio qui) il processo culturale diventa storia sociale.
La SITCC nasce a supporto dell'idea che alla crisi non solo scientifica ma sociale e politica del comportamentismo (vi ricordate tutti il film “Arancia meccanica”, vero?) si deve rispondere formulando un nuovo e diverso paradigma, dove all'innatismo freudiano e genetista e al costruttivismo radicale e nella sostanza nichilista, si poteva opporre un modello di sviluppo che partendo dalla considerazione di un essere umano la cui struttura era precostituita alla nascita (Sistemi Motivazionali innati, interpersonali e non interpersonali, biologicamente precostituiti), si evolveva nelle reazioni sociali e si veniva costituendo come essere individuale. l'Organizzazione(o Sistema) che si veniva formando condizionava la possibile successiva evoluzione del sistema, che Guidano definiva chiusura organizzazionale, e tutte le successive possibilità di cambiamento erano concepibili solo limitatamente alle possibilità di modifica senza perdita di identità del sistema (concetto di viabilità). Il complesso della concezione, nella versione di Guidano, salvaguardava l'identità dell'organizzazione,obbiettivo prima di qualunque sistema, pena la sua dissoluzione. Nella versione di Liotti salvaguardava, invece la natura universale delle forma di conoscenza e quindi la possibilità di averne una conoscenza scientificamente fondata.
La SITCC era la struttura che consentiva a questa loro idea di attraversare il tempo e sopravvivere.
Se è vera la mia ricostruzione, il modello aveva tagliato i ponti con la concezione comportamentista e la loro psicopatologia e la modalità di acquisizione della conoscenza e di cambiamento (compreso quello terapeutico) rendeva estranee, incoerenti e inadeguate le tecniche di apprendimento operativo e di estinzione, cavallo di battaglia del comportamentismo e, soprattutto, ne spiegavano l'insuccesso.
Il processo terapeutico era, perciò, un percorso di costruzione/rimodellamento dell'identità. A modificarsi non poteva che essere il sistema nel suo complesso e questo non poteva che avvenire nella relazione, esattamente come lo sviluppo umano che non è concepibile al di fuori di un contesto relazionale.
Fin qui siamo ancora all'interno di processo culturale.
MA
Tutto questo avveniva nella temperie della fine degli anni 70, e degli inizi degli 80 e segnava per così dire l'approdo di un processo sociale che si avviava al tramonto. Il mondo si muoveva vorticosamente in un'altra direzione e noi con loro.
Le ragioni efficienza, computabilità, coerenza con il sistema medico-biologico, richiesta di standard che prescindessero dalle differenze individuali e dl paziente e del terapeuta, rendevano non spendibile, né a livello accademico, nè a livello dei sistemi sanitari pubblici e privati le procedure terapeutiche coerenti con silema guidano-liottiano.
Se la musica cambia, necesse est navigare, e così abbiamo una psicopatologia che dovrebbe sostenere una coerente strategia terapeutica, ma le richiedeste sociali vanno in una direzione incompatibile con la coerenza . Come si dice altrove “gli uomini preferirono le terebra alla luce” ma senza dirlo.
La voce di Giancarlo Dimaggio si è alzata l'ultimo giorno dell'ultimo congresso SITCC (Bologna 2021) e a piedi nudi ha dichiarato: “E' giunta l'ora di dimenticare i padri” (non proprio così). E' ora di fare i conti, non con il modello relazionale etc . come dice Ruggiero, ma con l'evidenza che il mondo vuole altro e per stare al mondo bisogna accettarne le regole. Primum vivere , deinde philosophari . Qualcuno, come la CB-T lo fa con convinzione, qualcuno lo fa per convenienza.
In realtà l'evoluzione della SITTC attua nella forma più pura le previsioni della teoria dei sistemi complessi (e dei sistemi in generale): quando la permeabilità del sistema incorpora elementi non viabili, il sistema si scompagina e perde l'identità e con l'identità perde se stesso. Rimane un vuoto involucro. Non so se è questo che sta accadendo in SITCC , ma lo temo fortemente.
Un processo ulteriore che suggerisce Ruggiero è quello della schismogenesi: quando in un sistema si apre una frattura, questa è destinata ad allargarsi fino a produrre una completa separazione tra le parti. Non so se questo stia accadendo o sia già accaduto tra SITCC e CB-T
Ma la dicotomia di Wampold che cosa ha a che fare con questo? Nulla, a mio avviso.
Quello che è, invece, da capire è se lo sviluppo del cognitivismo clinico in Italia (in SITCC in particolare ) rimarrà e debba rimanere, come io ritengo, figlio di Guidano - Liotti ed epigoni, oppure cercare l'adozione da parte di Beck, Ellis, ed altri che non nomino, perchè tale paternità è un ostacolo all'entrata in società. C'entra pochissimo la questione del Dodo, che viene continuamente da alcuni colleghi e non da me riattivata in modo, a mio avviso, strumentale. C'entra per niente la questione della verifica empirica (si discute sull'appropriatezza delle metodologie, relativamente all'oggetto, non sulla opportunità-necessità di verifica-falsificazione.
Mi sentirei di rassicurare l'amico e maestro Antonio Semerari: in SITCC una parte non piccola non si sente di partecipare alla lotteria (gara?) modello contestuale-relazionale alla Wampold / modello medico-scientifico degli RCT. Entrambi sono spuri rispetto al modello.
CONCLUSIONE:
La SITCC, in quanto processo sociale, sembra sia andata assumendo la conformazione di “Area coloniale”
Un'area coloniale si contraddistingue per le seguenti caratteristiche:
Dipendenza da altre aree per la maggior parte dei saperi;
Produzione di beni rivolti ad efficienze esterne;
Omaggio di risorse intellettuali verso altre aree;
Subordinazione culturale.
Forse quel che enuncio è solo un rischio. Ad ogni buon conto, queste sono le strategie di uscita.
1. Ridurre la dipendenza;
2. Produzione a fini interni (per i pazienti, in primis);
3. Mantenimento delle risorse di personale qualificato (qualità delle scuole a marchio SITCC anche a costo di ridurre la produzione e i ricavi);
4. Rivitalizzazione culturale (uscire dal recinto della medicalità bieca, guardare fuori di noi stessi);
5. Interrompere lo scambio ineguale neurobiologia-psicologia/ psicoterapia (valore indiscusso della clinica)
Con questo concludo la lunga tirata. Ringrazio che è giunto in fondo.
Che la SITCC viva.
State bene.
Angelo Inverso
Re: Lettera aperta ai colleghi della SITCC e della CBT-Italia
In nessun modo ho competenze e preparazione per dirimere la questione o anche solo esprimere una mia opinione in merito... Ma sento il bisogno di ringraziare profondamente ciascun Autore di mail che interviene con conoscenza, passione e competenza nei diversi dibattiti che di volta in volta emergono e che, sono convinta, ci rendono terapeuti migliori.
Grazie del tempo, della dedizione, dell'aprirsi nella mia mente di nuove conoscenze, punti di vista e orizzonti... Se la Sitcc è arche questo:
Che la Sitcc viva, viva la Sitcc!
Grazie del tempo, della dedizione, dell'aprirsi nella mia mente di nuove conoscenze, punti di vista e orizzonti... Se la Sitcc è arche questo:
Che la Sitcc viva, viva la Sitcc!
Re: Lettera aperta ai colleghi della SITCC e della CBT-Italia
Buongiorno,
senza addentrarmi in disquisizioni troppo dotte, mi permetto di fare una semplice considerazione.
Qualunque sia il consesso umano organizzato, direi l'umanità tutta compresa (scendendo poi anche ai livelli diversi di Continente, Nazione, Città, del condominio, o del partito, o della
Scuola, e così lungamente di seguito), questo si compone di individui ognuno diverso dagli altri.
Verità difficilmente scalzabile (peraltro come cognitivi professiamo l'unicità del nostro personale cervello).
Sul Pianeta tutto ci si potrebbe dunque dare delle regole di coesistenza dichiarando molto semplicemente che siamo tutti esseri umani, e così vivere felicemente accettando questa macro legge di riferimento e sviluppando in modo positivo le nostre differenziazioni.
Purtroppo la società umana nella quale viviamo non ha ancora raggiunto questo meraviglioso livello evolutivo.
Nel nostro piccolo però, senza diventare il PD con le sue numerose correnti interne che sgomitano alle volte solo per promuovere desideri soggettivi, o per posizioni di potere, potremmo forse provare a mettere un macro titolo al tema che ci accomuna, e poi delle commissioni scientifiche di dettaglio sulle specificità al momento individuate (con la massima libertà di proliferazione all'interno del generico paradigma comune di riferimento).
E' pur vero che la competizione è l'anima del commercio, ma senza esagerare però!
Buona continuazione.
Giorgio C. Russo
senza addentrarmi in disquisizioni troppo dotte, mi permetto di fare una semplice considerazione.
Qualunque sia il consesso umano organizzato, direi l'umanità tutta compresa (scendendo poi anche ai livelli diversi di Continente, Nazione, Città, del condominio, o del partito, o della
Scuola, e così lungamente di seguito), questo si compone di individui ognuno diverso dagli altri.
Verità difficilmente scalzabile (peraltro come cognitivi professiamo l'unicità del nostro personale cervello).
Sul Pianeta tutto ci si potrebbe dunque dare delle regole di coesistenza dichiarando molto semplicemente che siamo tutti esseri umani, e così vivere felicemente accettando questa macro legge di riferimento e sviluppando in modo positivo le nostre differenziazioni.
Purtroppo la società umana nella quale viviamo non ha ancora raggiunto questo meraviglioso livello evolutivo.
Nel nostro piccolo però, senza diventare il PD con le sue numerose correnti interne che sgomitano alle volte solo per promuovere desideri soggettivi, o per posizioni di potere, potremmo forse provare a mettere un macro titolo al tema che ci accomuna, e poi delle commissioni scientifiche di dettaglio sulle specificità al momento individuate (con la massima libertà di proliferazione all'interno del generico paradigma comune di riferimento).
E' pur vero che la competizione è l'anima del commercio, ma senza esagerare però!
Buona continuazione.
Giorgio C. Russo
Re: Lettera aperta ai colleghi della SITCC e della CBT-Italia
Caro Antonio,
abbiamo esitato a rispondere al tuo messaggio che in linea di principio condividiamo e alla fine abbiamo pensato di risponderti. Infatti , fin dall'inizio della fondazione della SITCC abbiamo cercato di favorire l'unità delle forze e degli intenti. Già prima della fondazione dell'AIAMC, facemmo degli incontri con i "colleghi del Nord" per valutare la possibilità di una unica associazione. Ma, come sappiamo, non ebbero successo.
Nella storia della SITTC più volte vi sono state secessioni o tentativi di divisioni, mentre le iniziative di azioni congiunte e discussione tra i diversi gruppi hanno avuto uno scarso successo.
L'ultimo nostro tentativo, il Convegno di aggiornamento su "Orientamenti attuali in terapia cognitivo-comportamentale" (nel 2019) non ha portato ad alcuna iniziativa unitaria (e neanche settoriale).
La riflessione che abbiamo fatto dopo quasi 50 anni di iniziative unificanti (fallite!) è che avere il proprio "brand" e coltivare il prorio orto sia molto più "conveniente" che non imbarcarsi in un' impresa più impegnativa che in ogni caso non porterebbe sul piano teorico ad una reale sintesi, data l'eterogeneità di prospettive, modelli e teorie. Numerosi Autori da tempo segnalano come non esista una quadro generale condiviso che definisca i riferimenti teorici su cui si fonda la TCC.
Probabilmente, sarebbe necessaria una nuova impostazione generale, e anche noi siamo stati tentati di aprire e seguire nuove strade, ma non crediamo che la maggior parte dei colleghi sarebbe disposta a lasciare prospettive, modelli e teorie che hanno costituito la base della loro formazione e su cui è fondato il loro lavoro e il loro insegnamento.
Un caro saluto,
Lucio Sibilia e Stefania Borgo
abbiamo esitato a rispondere al tuo messaggio che in linea di principio condividiamo e alla fine abbiamo pensato di risponderti. Infatti , fin dall'inizio della fondazione della SITCC abbiamo cercato di favorire l'unità delle forze e degli intenti. Già prima della fondazione dell'AIAMC, facemmo degli incontri con i "colleghi del Nord" per valutare la possibilità di una unica associazione. Ma, come sappiamo, non ebbero successo.
Nella storia della SITTC più volte vi sono state secessioni o tentativi di divisioni, mentre le iniziative di azioni congiunte e discussione tra i diversi gruppi hanno avuto uno scarso successo.
L'ultimo nostro tentativo, il Convegno di aggiornamento su "Orientamenti attuali in terapia cognitivo-comportamentale" (nel 2019) non ha portato ad alcuna iniziativa unitaria (e neanche settoriale).
La riflessione che abbiamo fatto dopo quasi 50 anni di iniziative unificanti (fallite!) è che avere il proprio "brand" e coltivare il prorio orto sia molto più "conveniente" che non imbarcarsi in un' impresa più impegnativa che in ogni caso non porterebbe sul piano teorico ad una reale sintesi, data l'eterogeneità di prospettive, modelli e teorie. Numerosi Autori da tempo segnalano come non esista una quadro generale condiviso che definisca i riferimenti teorici su cui si fonda la TCC.
Probabilmente, sarebbe necessaria una nuova impostazione generale, e anche noi siamo stati tentati di aprire e seguire nuove strade, ma non crediamo che la maggior parte dei colleghi sarebbe disposta a lasciare prospettive, modelli e teorie che hanno costituito la base della loro formazione e su cui è fondato il loro lavoro e il loro insegnamento.
Un caro saluto,
Lucio Sibilia e Stefania Borgo
Re: Lettera aperta ai colleghi della SITCC e della CBT-Italia
Buongiorno a tutti,
un po’ in ritardo, ma accolgo volentieri l’invito di Antonio.
Premetto che condivido le sue curiosità, tanto è vero che parlando qualche tempo fa al telefono con un noto collega e amico comune, mi è sorta spontanea la seguente domanda: “Ma a che cosa servono, secondo te, adesso, tre società scientifiche nell’ambito della terapia comportamentale e cognitiva, se pensiamo a quanto si sono ridotte, per non dire azzerate, le distanze tra le diverse prospettive concettuali e metodologiche in questo specifico ambito?”; aggiungendo pure: “Io credo che tu potresti essere la persona adatta ad avviare, oggi, questa operazione di unificazione dell’universo cognitivista”. Vi risparmio, ovviamente, sia il tono (garbato ma eloquente) che i contenuti della risposta del mio interlocutore, che giustamente deve aver deciso, in questa fase della sua vita, di dedicarsi ad altro. Era solo per notare come, in qualche modo, in molti di noi riecheggino i quesiti posti da Antonio; ma anche come la mia domanda andasse implicitamente in direzione del tutto opposta rispetto a chi ritiene che le opposte “fazioni” in gioco abbiano ormai esaurito ogni velleità e abbiano definitivamente ed irrimediabilmente realizzato che le differenze sono diventate insanabili. Anzi.
Le ricostruzioni storiche sull’evoluzione del cognitivismo clinico italiano (e non) potrebbero anche esserci di qualche utilità per dirimere la questione ma nella consapevolezza che, come si sa, la storia ha ben poco di oggettivo e molto di ricostruito soggettivamente: al punto che oggi Auschwitz potrebbe essere stata liberata non più dall’Armata Rossa come avevamo sempre pensato, ma dall’esercito ucraino, figuriamoci la storia della psicoterapia cognitiva! Diciamo, comunque, che i miei ricordi, così come la percezione della situazione attuale, non sono così dicotomici come quelli offertici da Giovanni nella sua ricostruzione. Ma, appunto, i ricordi sono quelle cose che servono a fare identità.
Perché, mi sono chiesto, mi viene da interrogarmi su questa curiosa frammentazione attuale e non sento, dentro di me, così insanabili tutte quelle differenze o “frizioni” di cui qualcuno parla? Credo che una prima risposta possa stare nel modello del funzionamento umano e relazionale, sufficientemente complesso e consolidato, che assiste non solo me ma una fetta importante dei colleghi ancora affezionati a questa Società; per di più con una straordinaria cornice concettuale evolutiva, come quella rappresentata dalla developmental psychopathology, con la moderna teoria dell’attaccamento (quella rappresentativa e meta-rappresentativa) ben assisa al suo interno. Già questo, io credo che consenta una diversa stabilità e possibilità di integrazione assimilativa per chi naviga nel moderno e cangiante mare cognitivista, tra improvvisi “nuovi” flutti protocollari e “sorprendenti” nuove “ondate”.
Terza ondata
Dovremmo essere proprio così sorpresi da una “terza ondata” che porta come sfondo concettuale la condivisibile RFT e che finalmente è riuscita a consolidare, fin nel mondo comportamentista, la centralità clinica di due concetti come quelli di consapevolezza e di accettazione? Più o meno da 30 anni molti di noi parlano di consapevolezza dei propri processi interni come motore centrale del cambiamento, peraltro spesso accusati di riproporre linguaggi e atteggiamenti terapeutici di sapore vagamento psicanalitico, ai quali era allergico e refrattario il mainstream cognitivo-comportamentale, o di “svalutare il ruolo della padronanza o mastery agentiva volontaria ed esecutiva sia del terapeuta che del paziente a favore di un paziente lavoro consapevolmente complesso di laboriosa scoperta clinica di un vissuto intensamente influenzato dalla storia personale dell’individuo e dal suo primordiale retaggio evoluzionistico, scoperta sostanzialmente non pianificabile se non molto parzialmente e secondo linee guida estremamente elastiche”.
Vorrei ricordare che il cognitivismo costruttivista, si è fatto per anni, portabandiera dell’assunto secondo il quale le emozioni negative vanno osservate e comprese, il paziente deve imparare gradualmente a riconoscerle, ad articolarle, ad accettarle, a condividerle nella relazione, a integrarle in modo armonico e coerente nel proprio senso di sé. Le emozioni critiche non sono cose brutte da combattere, ma preziosi indicatori interni, informativi su di sé, sulla propria identità personale. Impariamo a starci, piuttosto che evitarle.
Finché a un certo punto arriva, fragorosa, la “terza ondata” e si comincia a parlare di consapevolezza, di accettazione. Ma soprattutto, che piacere, finalmente, sentir parlare di “evitamento esperenziale” come meccanismo centrale della psicopatologia. Se affrontiamo i nostri sentimenti spiacevoli scacciandoli o cercando di controllarli, non facciamo che mantenerli. Cambia radicalmente il modo di rapportarsi ai propri stati interni. L’obiettivo della terapia non si concentra più sul tentativo di modificare direttamente i comportamenti o i pensieri, ma al contrario si punta maggiormente a sviluppare una consapevolezza e un atteggiamento non giudicante, di accettazione nei loro confronti. Le procedure cliniche mirano quindi sempre più a un incremento della sua “flessibilità psicologica”. Musica per le orecchie costruttiviste.
Su questo aspetto, del lavorare sui processi più che sui contenuti, direi che la prospettiva epistemologica e clinica evolutiva e costruttivista si colloca di default in naturale e perfetta sintonia con gli approcci della terza ondata e con la prospettiva mindfulness. Immagino piuttosto che tale passaggio possa aver rappresentato una sorta di “rivoluzione” per chi, fino ad allora armato prevalentemente di “disputing”, ha comunque sempre avvertito chiara la difficoltà ad intervenire in modo “protesico” per “cambiare comportamenti” o “sostituire convinzioni” e ora finalmente può lanciarsi con entusiasmo nel mondo dell’accettazione, della defusione e della consapevolezza, rimanendo insieme al paziente ad osservare i pensieri che svolazzano come nuvolette nella sua mente.
Rimane qualche differenza? Beh, immagino di sì. Per quanto mi riguarda, quei pensieri e quelle immagini che scorrono, posso vederle sì come nuvolette che vanno e che vengono nella mia mente, ma non proprio come eventi mentali “effimeri”. Quelle nuvolette sono il condensato di tutta la mia pesante storia d’attaccamento. Non sono solo pensieri che arrivano casualmente e se ne vanno casualmente dallo scenario della mia mente, sono i miei pensieri, sono le mie nuvolette/immagini, spinte dal vento talora dolce, talora impetuoso, che emana dalla mia storia e dai miei nuclei identitari. Va bene la processualità, ma una psicoterapia che non tenga conto di ciò che i nostri pazienti hanno in mente e che hanno imparato nella loro storia mi pare francamente paradossale.
Comunque sia, tutto questo non mi impedisce certo di parlare fruttuosamente, o come dice Antonio anche di fare a cervellate, con gli amici mindful, anzi! Quotidianamente lo faccio, con stima reciproca.
Processi e contenuti … Metacognizione
In questo senso, faccio un po’ fatica a comprendere che cosa intenda chi sottolinea un insanabile divario tra approcci processuali e approcci contenutistici. Il cognitivismo clinico costruttivista attuale non lavora affatto (o certamente non solo) sui contenuti rappresentativi. Chi, come il sottoscritto, lavora da anni in prospettiva attachment-based, ha da tempo imparato ad integrare la considerazione dei contenuti rappresentativi con il lavoro sul funzionamento e sull’integrazione dei sistemi di memoria. La moderna TA è praticamente tutta basata sui processi: tutti possiamo avere temi di pericolo o di perdita, ma il problema è come li processiamo, vale a dire quali sistemi di memoria ci hanno insegnato ad utilizzare le nostre figure d’attaccamento.
E tutto il lavoro “terzocentrino” sulle funzioni metacognitive, almeno per come io l’ho sempre recepito e utilizzato, non è forse focalizzato sugli aspetti processuali più che sui contenuti rappresentativi? E’ innegabile la differenza che c’è tra il concetto di metacognizione come inteso in Wells e dintorni (un articolato e intelligente up-date del classico problema secondario considerato in psicoterapia cognitiva fin dai tempi di Ellis e Beck); e come inteso invece dal terzocentro e dintorni, ma anche dalla stessa teoria dell’attaccamento e da tutto il ricchissimo filone di studi basato sulla mentalizzazione? Sono entrambe prospettive processuali, pur con focalizzazioni e spessori un po’ diversi. Ma perché non potrei interessarmi di entrambe? E inoltre, perchè “metacognitivo” e “relazionale” non potrebbero stare insieme e perchè, coloro che c’hanno messo il trattino in mezzo, dovrebbe fare prima o poi una drammatica scelta di campo e forse anche una abiura solenne?
La relazione
Come cognitivista è dalla fine degli anni ‘80 che mi definisco “relazionale” e non avrei alcuna intenzione di tornare indietro ora, né di fare alcuna abiura. Non potrei proprio farcela a vedere i sintomi fuori dalla dimensione interpersonale entro cui prendono forma e a rinunciare alla lezione bowlbiana, a un passo dalla pensione. E tanto meno vorrei che ci rinunciassero i miei allievi: li vorrei pensare capaci di applicare con competenza ed efficacia le procedure d’assessment, le variegate tecniche della terapia cognitivo-comportamentale, ma di farlo in modo non stereotipato e meccanico, ma creativo e flessibile, attraverso una relazione terapeutica attenta e sensibile verso i loro pazienti, consapevoli che ognuno di essi rappresenta un soggetto unico e irripetibile.
Non oso pensare che ci sia ancora qualche collega, finanche nell’ambito paleo-comportamentista, che non accetti di confrontarsi seriamente col problema della relazione. Virtualmente tutti gli approcci sono costretti a fare i conti col problema dell’analisi e gestione della relazione terapeutica, se non altro per la necessità di ottimizzare l’implementazione delle tecniche terapeutiche e per fronteggiare in qualche modo quel fenomeno trasversalmente riconosciuto e definito come “resistenza” al trattamento. E sembrano pure d’accordo sul fatto che vadano identificati i meccanismi sottostanti a tali fenomeni e i dispositivi per lavorarci in modo che il processo terapeutico possa riprendere a fluire in senso positivo.
Abbiamo salutato, a suo tempo, con grande entusiasmo i primi lavori di Safran e Segal (1990), a partire dai quali un filone importante del cognitivismo clinico cominciò esplicitamente a ragionare in termini di “schemi cognitivi interpersonali” e di “cicli cognitivi interpersonali” entro i quali il paziente tende a trascinare l’altro, attribuendo in tal modo un valore esplicitamente relazionale al concetto di schema. Sentir parlare di queste strutture schematiche come di “programmi per il mantenimento dello stato di relazione” fu per me un godimento infinito e un grande e rivoluzionario cambiamento di prospettiva. Alcuni anni dopo Safran e Muran (2000), e poi Safran e collaboratori (2002) ci regalarono uno splendido modello di analisi e di intervento (riparazione) sulle possibili rotture dell’alleanza di lavoro che possono presentarsi all’interno del processo psicoterapeutico. Modello che ancora rappresenta a mio parere una guida insuperata in questo ambito. C’è una letteratura sconfinata ormai sull’argomento, ivi compreso sull’influenza che i modelli d’attaccamento del paziente e del terapeuta hanno sul processo e sull’esito terapeutico, indipendentemente dalle tecniche utilizzate. C’è davvero qualcuno che ancora pensa di poter ignorare tutto ciò?
Alcuni contributi, direi proprio non sospetti, come quelli di Gilbert e Leahy (2007) e successivamente di Kazantzis, Dattilo e Dobson (2017), ma ogni giorno ne vediamo di nuovi, evidenziano come anche per la CBT sia ormai diventato imprescindibile ampliare in modo sostanziale il proprio campo d’indagine all’osservazione attenta e alla cura della relazione terapeutica, considerando sia i fattori specifici che quelli aspecifici del cambiamento. Sorprendentemente anche questi autori, nell’analizzare le diverse difficoltà che possono presentarsi all’interno della relazione terapeutica, sono costretti a prendere in considerazione in modo esplicito la storia evolutiva del paziente e la qualità dei suoi legami d’attaccamento, riconoscendo che senza questo tipo di prospettiva i suoi comportamenti all’interno del setting clinico finiscono inevitabilmente per essere letti superficialmente, rimangono poco comprensibili e tendono a produrre nel terapeuta risposte disfunzionali.
Certo in ambito cognitivista possono esserci delle differenze, anche marcate, riguardo all’enfasi che concettualmente e tecnicamente si può porre sulla relazione all’interno del processo psicoterapeutico: da una centralità anche un po’ talebana (con atteggiamenti talvolta un po’ svalutanti verso il piano tecnico), passando per gradazioni intermedie, fino al mortificarla come elemento del tutto accessorio (vedi l’ironica “questione di buona educazione”). Ma, di nuovo, mi chiedo: in che modo tutto ciò dovrebbe impedirci di discutere, dibattere e magari anche divertirci, come peraltro abbiamo visto negli ultimi congressi SITCC, con belle tavole rotonde (teoriche, di analisi di uno stesso caso clinico, vere e proprie sedute in diretta con “paziente”, ecc) di confronto tra diversi modelli psicoterapeutici?
Infine Antonio, e poi chiudo, non è detto che tutto si spieghi sempre e solo sul piano strettamente scientifico. Soprattutto questi ultimi anni ci hanno insegnato che se vuoi capire il perché di alcune scelte che sul piano sanitario o scientifico non sembrano del tutto comprensibili, logiche e chiare … spostati su un altro livello, che è quello più ampio di carattere sociale e di politica sanitaria, sul quale le nostre società scientifiche dovranno (e pare che alcune già lo stiano facendo) prendere posizione. Come è noto, è in atto un importante movimento di promozione dei protocolli di dimostrata efficacia in stile IAPT inglese, con una evidente parcellizzazione della professione psicoterapeutica in tante diversificate attività psicologiche che non richiederebbero una formazione psicoterapeutica vera e propria, bensì l’apprendimento di alcuni specifici protocolli volti ad alcuni quadri specifici. Qualche Regione sta già organizzando i propri piani sanitari in tal senso. Capisco che chi, da una parte, ha moltiplicato le facoltà di psicologia, oggi debba cercare di risolvere, dall’altra, il problema di questa enorme massa di psicologi spesso in cerca di una non troppo faticosa e costosa identità professionale. ENPAP e CNOP pare che stiano andando decisamente in questo senso. Un interessante esempio clinico di questa potenziale deriva è emerso, per chi l’avesse seguito, in un recente dibattito interno alla SITCC riguardante i “puberty blockers” e gli interventi psicologici nell’ambito della cosiddetta “disforia di genere”, ambito in cui la iper-specializzazione protocollata (ma a volte anche un po’ ideologizzata) sostenuta da alcune società scientifiche, porta talvolta ad interpretare i dati scientifici in modo, diciamo, assai peculiare, ma soprattutto a scotomizzare macroscopici disturbi di personalità spesso sottesi a tali quadri.
Mi chiedo, chiedo ad Antonio e chiedo a tutti soci SITCC: considerato il modo in cui noi abbiamo sempre inteso e interpretato la “funzione psicoterapeutica”, mai svincolata da un pensiero psicopatologico complesso e da una formazione personale complessa, qual è la nostra posizione in merito a tutto ciò?
Un caro saluto a tutti
Furio Lambruschi
un po’ in ritardo, ma accolgo volentieri l’invito di Antonio.
Premetto che condivido le sue curiosità, tanto è vero che parlando qualche tempo fa al telefono con un noto collega e amico comune, mi è sorta spontanea la seguente domanda: “Ma a che cosa servono, secondo te, adesso, tre società scientifiche nell’ambito della terapia comportamentale e cognitiva, se pensiamo a quanto si sono ridotte, per non dire azzerate, le distanze tra le diverse prospettive concettuali e metodologiche in questo specifico ambito?”; aggiungendo pure: “Io credo che tu potresti essere la persona adatta ad avviare, oggi, questa operazione di unificazione dell’universo cognitivista”. Vi risparmio, ovviamente, sia il tono (garbato ma eloquente) che i contenuti della risposta del mio interlocutore, che giustamente deve aver deciso, in questa fase della sua vita, di dedicarsi ad altro. Era solo per notare come, in qualche modo, in molti di noi riecheggino i quesiti posti da Antonio; ma anche come la mia domanda andasse implicitamente in direzione del tutto opposta rispetto a chi ritiene che le opposte “fazioni” in gioco abbiano ormai esaurito ogni velleità e abbiano definitivamente ed irrimediabilmente realizzato che le differenze sono diventate insanabili. Anzi.
Le ricostruzioni storiche sull’evoluzione del cognitivismo clinico italiano (e non) potrebbero anche esserci di qualche utilità per dirimere la questione ma nella consapevolezza che, come si sa, la storia ha ben poco di oggettivo e molto di ricostruito soggettivamente: al punto che oggi Auschwitz potrebbe essere stata liberata non più dall’Armata Rossa come avevamo sempre pensato, ma dall’esercito ucraino, figuriamoci la storia della psicoterapia cognitiva! Diciamo, comunque, che i miei ricordi, così come la percezione della situazione attuale, non sono così dicotomici come quelli offertici da Giovanni nella sua ricostruzione. Ma, appunto, i ricordi sono quelle cose che servono a fare identità.
Perché, mi sono chiesto, mi viene da interrogarmi su questa curiosa frammentazione attuale e non sento, dentro di me, così insanabili tutte quelle differenze o “frizioni” di cui qualcuno parla? Credo che una prima risposta possa stare nel modello del funzionamento umano e relazionale, sufficientemente complesso e consolidato, che assiste non solo me ma una fetta importante dei colleghi ancora affezionati a questa Società; per di più con una straordinaria cornice concettuale evolutiva, come quella rappresentata dalla developmental psychopathology, con la moderna teoria dell’attaccamento (quella rappresentativa e meta-rappresentativa) ben assisa al suo interno. Già questo, io credo che consenta una diversa stabilità e possibilità di integrazione assimilativa per chi naviga nel moderno e cangiante mare cognitivista, tra improvvisi “nuovi” flutti protocollari e “sorprendenti” nuove “ondate”.
Terza ondata
Dovremmo essere proprio così sorpresi da una “terza ondata” che porta come sfondo concettuale la condivisibile RFT e che finalmente è riuscita a consolidare, fin nel mondo comportamentista, la centralità clinica di due concetti come quelli di consapevolezza e di accettazione? Più o meno da 30 anni molti di noi parlano di consapevolezza dei propri processi interni come motore centrale del cambiamento, peraltro spesso accusati di riproporre linguaggi e atteggiamenti terapeutici di sapore vagamento psicanalitico, ai quali era allergico e refrattario il mainstream cognitivo-comportamentale, o di “svalutare il ruolo della padronanza o mastery agentiva volontaria ed esecutiva sia del terapeuta che del paziente a favore di un paziente lavoro consapevolmente complesso di laboriosa scoperta clinica di un vissuto intensamente influenzato dalla storia personale dell’individuo e dal suo primordiale retaggio evoluzionistico, scoperta sostanzialmente non pianificabile se non molto parzialmente e secondo linee guida estremamente elastiche”.
Vorrei ricordare che il cognitivismo costruttivista, si è fatto per anni, portabandiera dell’assunto secondo il quale le emozioni negative vanno osservate e comprese, il paziente deve imparare gradualmente a riconoscerle, ad articolarle, ad accettarle, a condividerle nella relazione, a integrarle in modo armonico e coerente nel proprio senso di sé. Le emozioni critiche non sono cose brutte da combattere, ma preziosi indicatori interni, informativi su di sé, sulla propria identità personale. Impariamo a starci, piuttosto che evitarle.
Finché a un certo punto arriva, fragorosa, la “terza ondata” e si comincia a parlare di consapevolezza, di accettazione. Ma soprattutto, che piacere, finalmente, sentir parlare di “evitamento esperenziale” come meccanismo centrale della psicopatologia. Se affrontiamo i nostri sentimenti spiacevoli scacciandoli o cercando di controllarli, non facciamo che mantenerli. Cambia radicalmente il modo di rapportarsi ai propri stati interni. L’obiettivo della terapia non si concentra più sul tentativo di modificare direttamente i comportamenti o i pensieri, ma al contrario si punta maggiormente a sviluppare una consapevolezza e un atteggiamento non giudicante, di accettazione nei loro confronti. Le procedure cliniche mirano quindi sempre più a un incremento della sua “flessibilità psicologica”. Musica per le orecchie costruttiviste.
Su questo aspetto, del lavorare sui processi più che sui contenuti, direi che la prospettiva epistemologica e clinica evolutiva e costruttivista si colloca di default in naturale e perfetta sintonia con gli approcci della terza ondata e con la prospettiva mindfulness. Immagino piuttosto che tale passaggio possa aver rappresentato una sorta di “rivoluzione” per chi, fino ad allora armato prevalentemente di “disputing”, ha comunque sempre avvertito chiara la difficoltà ad intervenire in modo “protesico” per “cambiare comportamenti” o “sostituire convinzioni” e ora finalmente può lanciarsi con entusiasmo nel mondo dell’accettazione, della defusione e della consapevolezza, rimanendo insieme al paziente ad osservare i pensieri che svolazzano come nuvolette nella sua mente.
Rimane qualche differenza? Beh, immagino di sì. Per quanto mi riguarda, quei pensieri e quelle immagini che scorrono, posso vederle sì come nuvolette che vanno e che vengono nella mia mente, ma non proprio come eventi mentali “effimeri”. Quelle nuvolette sono il condensato di tutta la mia pesante storia d’attaccamento. Non sono solo pensieri che arrivano casualmente e se ne vanno casualmente dallo scenario della mia mente, sono i miei pensieri, sono le mie nuvolette/immagini, spinte dal vento talora dolce, talora impetuoso, che emana dalla mia storia e dai miei nuclei identitari. Va bene la processualità, ma una psicoterapia che non tenga conto di ciò che i nostri pazienti hanno in mente e che hanno imparato nella loro storia mi pare francamente paradossale.
Comunque sia, tutto questo non mi impedisce certo di parlare fruttuosamente, o come dice Antonio anche di fare a cervellate, con gli amici mindful, anzi! Quotidianamente lo faccio, con stima reciproca.
Processi e contenuti … Metacognizione
In questo senso, faccio un po’ fatica a comprendere che cosa intenda chi sottolinea un insanabile divario tra approcci processuali e approcci contenutistici. Il cognitivismo clinico costruttivista attuale non lavora affatto (o certamente non solo) sui contenuti rappresentativi. Chi, come il sottoscritto, lavora da anni in prospettiva attachment-based, ha da tempo imparato ad integrare la considerazione dei contenuti rappresentativi con il lavoro sul funzionamento e sull’integrazione dei sistemi di memoria. La moderna TA è praticamente tutta basata sui processi: tutti possiamo avere temi di pericolo o di perdita, ma il problema è come li processiamo, vale a dire quali sistemi di memoria ci hanno insegnato ad utilizzare le nostre figure d’attaccamento.
E tutto il lavoro “terzocentrino” sulle funzioni metacognitive, almeno per come io l’ho sempre recepito e utilizzato, non è forse focalizzato sugli aspetti processuali più che sui contenuti rappresentativi? E’ innegabile la differenza che c’è tra il concetto di metacognizione come inteso in Wells e dintorni (un articolato e intelligente up-date del classico problema secondario considerato in psicoterapia cognitiva fin dai tempi di Ellis e Beck); e come inteso invece dal terzocentro e dintorni, ma anche dalla stessa teoria dell’attaccamento e da tutto il ricchissimo filone di studi basato sulla mentalizzazione? Sono entrambe prospettive processuali, pur con focalizzazioni e spessori un po’ diversi. Ma perché non potrei interessarmi di entrambe? E inoltre, perchè “metacognitivo” e “relazionale” non potrebbero stare insieme e perchè, coloro che c’hanno messo il trattino in mezzo, dovrebbe fare prima o poi una drammatica scelta di campo e forse anche una abiura solenne?
La relazione
Come cognitivista è dalla fine degli anni ‘80 che mi definisco “relazionale” e non avrei alcuna intenzione di tornare indietro ora, né di fare alcuna abiura. Non potrei proprio farcela a vedere i sintomi fuori dalla dimensione interpersonale entro cui prendono forma e a rinunciare alla lezione bowlbiana, a un passo dalla pensione. E tanto meno vorrei che ci rinunciassero i miei allievi: li vorrei pensare capaci di applicare con competenza ed efficacia le procedure d’assessment, le variegate tecniche della terapia cognitivo-comportamentale, ma di farlo in modo non stereotipato e meccanico, ma creativo e flessibile, attraverso una relazione terapeutica attenta e sensibile verso i loro pazienti, consapevoli che ognuno di essi rappresenta un soggetto unico e irripetibile.
Non oso pensare che ci sia ancora qualche collega, finanche nell’ambito paleo-comportamentista, che non accetti di confrontarsi seriamente col problema della relazione. Virtualmente tutti gli approcci sono costretti a fare i conti col problema dell’analisi e gestione della relazione terapeutica, se non altro per la necessità di ottimizzare l’implementazione delle tecniche terapeutiche e per fronteggiare in qualche modo quel fenomeno trasversalmente riconosciuto e definito come “resistenza” al trattamento. E sembrano pure d’accordo sul fatto che vadano identificati i meccanismi sottostanti a tali fenomeni e i dispositivi per lavorarci in modo che il processo terapeutico possa riprendere a fluire in senso positivo.
Abbiamo salutato, a suo tempo, con grande entusiasmo i primi lavori di Safran e Segal (1990), a partire dai quali un filone importante del cognitivismo clinico cominciò esplicitamente a ragionare in termini di “schemi cognitivi interpersonali” e di “cicli cognitivi interpersonali” entro i quali il paziente tende a trascinare l’altro, attribuendo in tal modo un valore esplicitamente relazionale al concetto di schema. Sentir parlare di queste strutture schematiche come di “programmi per il mantenimento dello stato di relazione” fu per me un godimento infinito e un grande e rivoluzionario cambiamento di prospettiva. Alcuni anni dopo Safran e Muran (2000), e poi Safran e collaboratori (2002) ci regalarono uno splendido modello di analisi e di intervento (riparazione) sulle possibili rotture dell’alleanza di lavoro che possono presentarsi all’interno del processo psicoterapeutico. Modello che ancora rappresenta a mio parere una guida insuperata in questo ambito. C’è una letteratura sconfinata ormai sull’argomento, ivi compreso sull’influenza che i modelli d’attaccamento del paziente e del terapeuta hanno sul processo e sull’esito terapeutico, indipendentemente dalle tecniche utilizzate. C’è davvero qualcuno che ancora pensa di poter ignorare tutto ciò?
Alcuni contributi, direi proprio non sospetti, come quelli di Gilbert e Leahy (2007) e successivamente di Kazantzis, Dattilo e Dobson (2017), ma ogni giorno ne vediamo di nuovi, evidenziano come anche per la CBT sia ormai diventato imprescindibile ampliare in modo sostanziale il proprio campo d’indagine all’osservazione attenta e alla cura della relazione terapeutica, considerando sia i fattori specifici che quelli aspecifici del cambiamento. Sorprendentemente anche questi autori, nell’analizzare le diverse difficoltà che possono presentarsi all’interno della relazione terapeutica, sono costretti a prendere in considerazione in modo esplicito la storia evolutiva del paziente e la qualità dei suoi legami d’attaccamento, riconoscendo che senza questo tipo di prospettiva i suoi comportamenti all’interno del setting clinico finiscono inevitabilmente per essere letti superficialmente, rimangono poco comprensibili e tendono a produrre nel terapeuta risposte disfunzionali.
Certo in ambito cognitivista possono esserci delle differenze, anche marcate, riguardo all’enfasi che concettualmente e tecnicamente si può porre sulla relazione all’interno del processo psicoterapeutico: da una centralità anche un po’ talebana (con atteggiamenti talvolta un po’ svalutanti verso il piano tecnico), passando per gradazioni intermedie, fino al mortificarla come elemento del tutto accessorio (vedi l’ironica “questione di buona educazione”). Ma, di nuovo, mi chiedo: in che modo tutto ciò dovrebbe impedirci di discutere, dibattere e magari anche divertirci, come peraltro abbiamo visto negli ultimi congressi SITCC, con belle tavole rotonde (teoriche, di analisi di uno stesso caso clinico, vere e proprie sedute in diretta con “paziente”, ecc) di confronto tra diversi modelli psicoterapeutici?
Infine Antonio, e poi chiudo, non è detto che tutto si spieghi sempre e solo sul piano strettamente scientifico. Soprattutto questi ultimi anni ci hanno insegnato che se vuoi capire il perché di alcune scelte che sul piano sanitario o scientifico non sembrano del tutto comprensibili, logiche e chiare … spostati su un altro livello, che è quello più ampio di carattere sociale e di politica sanitaria, sul quale le nostre società scientifiche dovranno (e pare che alcune già lo stiano facendo) prendere posizione. Come è noto, è in atto un importante movimento di promozione dei protocolli di dimostrata efficacia in stile IAPT inglese, con una evidente parcellizzazione della professione psicoterapeutica in tante diversificate attività psicologiche che non richiederebbero una formazione psicoterapeutica vera e propria, bensì l’apprendimento di alcuni specifici protocolli volti ad alcuni quadri specifici. Qualche Regione sta già organizzando i propri piani sanitari in tal senso. Capisco che chi, da una parte, ha moltiplicato le facoltà di psicologia, oggi debba cercare di risolvere, dall’altra, il problema di questa enorme massa di psicologi spesso in cerca di una non troppo faticosa e costosa identità professionale. ENPAP e CNOP pare che stiano andando decisamente in questo senso. Un interessante esempio clinico di questa potenziale deriva è emerso, per chi l’avesse seguito, in un recente dibattito interno alla SITCC riguardante i “puberty blockers” e gli interventi psicologici nell’ambito della cosiddetta “disforia di genere”, ambito in cui la iper-specializzazione protocollata (ma a volte anche un po’ ideologizzata) sostenuta da alcune società scientifiche, porta talvolta ad interpretare i dati scientifici in modo, diciamo, assai peculiare, ma soprattutto a scotomizzare macroscopici disturbi di personalità spesso sottesi a tali quadri.
Mi chiedo, chiedo ad Antonio e chiedo a tutti soci SITCC: considerato il modo in cui noi abbiamo sempre inteso e interpretato la “funzione psicoterapeutica”, mai svincolata da un pensiero psicopatologico complesso e da una formazione personale complessa, qual è la nostra posizione in merito a tutto ciò?
Un caro saluto a tutti
Furio Lambruschi