Re: Uno sguardo diverso sull'ADHD
Inviato: 07 dic 2023, 10:36
RIPENSARE L’ADHD
Un caro buongiorno a tutti,
grazie Angelo per tenere viva la discussione nel tentativo, spero fruttuoso, di rivedere la complessità del fenomeno ADHD e ripensarla alla luce dei progressi delle ricerche sull’argomento e delle esperienze cliniche di tutti noi.
Per chi lavora in prima linea con le famiglie e le turbolenza dei bambini/e con disturbi dell’autocontrollo, appare evidente che c’è qualcosa che non torna.
Angelo ci ricorda il problema di sovradiagnosi e quindi di inquadramento diagnostico e di trattamento. Sono evidenti le prove dell’inflazione diagnostica (Bloom, Cohen e Freeman 2011), un’epidemia che richiede un’analisi e una comprensione seria per riportare in primo piano il bambino e i suoi bisogni ed evitare di “problematizzare” sinonimo di “medicalizzare” le diversità/differenze/peculiarità che incontriamo. Pensiamo solo al fatto che (le considerazioni sarebbero molto più ampie), l’età di nascita di un bambino è un fattore predittivo rispetto alla possibilità di ricevere una diagnosi (Age level vs grade level for the diagnosis of ADHD and neurodevelopmental disorders .Maurizio Bonati et al. the Lombardy ADHD Group, 2018 - Attention Deficit–Hyperactivity Disorder and Month of School Enrollment. Timothy J. Layton, 2018 - Influence of relative age on diagnosis and treatment of attention-deficit/hyperactivity disorder in children Richard L. Morrow MA, 2012). Tutte le ricerche che hanno analizzato il fenomeno e ci mettono in guardia sulla facilità con la quale vengono fatte le diagnosi di ADHD, evidenziando come i bambini più piccini (per il nostro paese quelli nati nel secondo semestre e nell’ultimo trimestre rispetto al gruppo classe che segue gli standard di iscrizione alle primarie italiane), hanno una probabilità maggiore di ricevere una diagnosi. Come se “l’immaturità fisiologica” di un bambino (sappiamo bene quanto e in che modo lo sviluppo delle funzioni esecutive non seguano una crescita lineare ma continua e differenziabile in ogni individuo ed in relazione a mille variabili ambientali) sia stata trasformata in una discrepanza degna di essere etichettata come un disturbo, una malattia da curare (Morrow et al. 2012, Bruchmuller et al. 2012).
E qui stiamo analizzando la dimensione infantile, nell’adulto la faccenda diventa ancora più complessa e intricata. Ma ho poca esperienza dei processi di diagnosi e cura dell ADHD nell’adulto e sarebbe fruttuoso con un confronto con i coleghi ce se ne occupano in prima persona.
Un altro punto che vorrei toccare, manifestando un evidente critica, è l’atteggiamento (forse meglio appiattimento) su una clinica orientata oltre modo, al positivismo scientifico che ha accompagnato la psichiatria (e quindi aimè la psicologia) in questi ultimi vent’anni. Una visione probabilmente spinta e supportata dagli enormi progressi e straordinarie conoscenze legate allo sviluppo delle neuroscienze. Scoperte e ricerche riportare nel mondo della clinica con, oggi possiamo dirlo(?), un certo azzardo. Sembra che ad un certo punto il modello biomedico avesse un’estrema necessità di farsi notare e di ritagliarsi uno spazio privilegiato nel mondo della salute mentale in età pediatrica. L’ADHD (non solo purtroppo) sembra sia stata una ghiotta occasione. Per anni ci è stata proposta la versione, riduzionistica e parcellizzata, che difficoltà di concentrazione, impulsività e discontrollo fossero direttamente legati a evidenti e chiari deficit neurobiologici. Questa narrazione biomedica ha e sta avendo un impatto devastante nel campo della salute mentale soprattutto in età evolutiva, con ricadute e derive sociali e culturali pericolose (parafrasando Angelo). Un mese fa una mamma particolarmente in allarme e preoccupata per la disorganizzazione del figlio di 9 anni diagnosticato in una Uonpia Lombarda mi ha chiesto se l utilizzo delle cellule staminali potesse essere efficace per la cura dell’ADHD (potrei raccontare molti episodi che denotano la confusione e la comunicazione del fenomeno ADHD legato esclusivamente ad una spiegazione biomedica). Forse possiamo permetterci di dire che un approccio unicamente biomedico ai disturbi mentali rimane al momento una presunzione ideologica non basata su dati scientifici. Non esiste un singolo fattore di rischio che spieghi l'ADHD. I recenti progressi rendono ancora più chiaro che la fisiopatologia dell’ADHD è più complessa di quanto suggerito dalla ricerca del ventesimo secolo (genetica, struttura SNC, chimica) e supportano l’idea che l’ADHD non è una condizione unitaria ma è invece un percorso finale comune di molti fattori biologici e ambientali. Come altri disturbi complessi, l'ADHD non è spiegato da nessun singolo fattore e non tutti coloro che sono esposti a specifiche avversità, a un determinato fattore di rischio, presentano un disturbo. Cosi come sappiamo che molti fattori di rischio possono interagire con un costituzionalità già fragile e impattare negativamente sulla disorganizzazione del bambino (a riguardo ricordo gli importanti studi sugli Adverse Childhood Experiences, ACEs). Si parla di multicomplessità, si deve tornare a parlare di modello Bio-Psico-Sociale, di psicologia evoluzionistica (una volta se ne parlava apertamente anche tra noi cognitivisti), di fattori di rischio e fattori di protezione. La complessità del bambino inserito in un contesto relazionale (attaccamento-accudimento), che si interfaccia con un contesto sociale e culturale spesso disarmonico (erosione dei legami comunitari) e tossico per uno sviluppo equilibrato (stress genitoriale, impatto tecnologie-device).
Ci sarebbe poi il problema del trattamento, solo un accenno al fatto che gli interventi educativi/riabilitativi sono interventi necessari ma non sufficienti al sostegno verso un integrazione del bambino in armonia con i differenti ambienti di vita. Qual è quindi il ruolo e la valenza di un intervento psicoterapeutico, qual è il suo surplus? E l’intervento farmacologico? Quando è un intervento basato sull’uso razionale del farmaco? Quando osserviamo un giusto e corretto equilibrio fra il trattamento farmacologico e quello non farmacologico? Quanti trattamenti purtroppo si basano esclusivamente su farmaco e quindi ricalcano un’esclusività dannosa del modello biomedico?
Alcuni, nel qui presente rotolone, accennavano agli importanti studi sul trauma (Van Der Kolk), che possono aiutarci ad illuminare il fenomeno del discontrollo, dell’impulsività. Altri riportavano le importanti considerazioni di D.Siegel sul concetto di “neurobiologia interpersonale”. Sicuramente altri studi e riflessioni e soprattutto l’esperienza del clinico, possono aiutare a rivedere e ripensare il concetto di ADHD, di discutere e portare suggestioni sul fenomeno complesso ed eterogeneo delle difficoltà di autocontrollo nella società moderna e su questa “disattenzione” di massa. Penso, come Angelo, che sia necessario scendere in campo e provare ad incontrare i bambini e le loro famiglie con uno sguardo differente, ampio e curioso. Uno sguardo che ci porti oltre le diagnosi e i trattamenti protocollati, uno slancio verso la complessità dei fenomeni umani e analisi su più livelli che possa includere fattori cognitivi, comportamentali, ambientali, sociali e biologici. Ripensiamo insieme l’ADHD, ripensiamo insieme la clinica.
Un caro saluto a tutti i colleghi, spero a presto
Claudio Bissoli
Un caro buongiorno a tutti,
grazie Angelo per tenere viva la discussione nel tentativo, spero fruttuoso, di rivedere la complessità del fenomeno ADHD e ripensarla alla luce dei progressi delle ricerche sull’argomento e delle esperienze cliniche di tutti noi.
Per chi lavora in prima linea con le famiglie e le turbolenza dei bambini/e con disturbi dell’autocontrollo, appare evidente che c’è qualcosa che non torna.
Angelo ci ricorda il problema di sovradiagnosi e quindi di inquadramento diagnostico e di trattamento. Sono evidenti le prove dell’inflazione diagnostica (Bloom, Cohen e Freeman 2011), un’epidemia che richiede un’analisi e una comprensione seria per riportare in primo piano il bambino e i suoi bisogni ed evitare di “problematizzare” sinonimo di “medicalizzare” le diversità/differenze/peculiarità che incontriamo. Pensiamo solo al fatto che (le considerazioni sarebbero molto più ampie), l’età di nascita di un bambino è un fattore predittivo rispetto alla possibilità di ricevere una diagnosi (Age level vs grade level for the diagnosis of ADHD and neurodevelopmental disorders .Maurizio Bonati et al. the Lombardy ADHD Group, 2018 - Attention Deficit–Hyperactivity Disorder and Month of School Enrollment. Timothy J. Layton, 2018 - Influence of relative age on diagnosis and treatment of attention-deficit/hyperactivity disorder in children Richard L. Morrow MA, 2012). Tutte le ricerche che hanno analizzato il fenomeno e ci mettono in guardia sulla facilità con la quale vengono fatte le diagnosi di ADHD, evidenziando come i bambini più piccini (per il nostro paese quelli nati nel secondo semestre e nell’ultimo trimestre rispetto al gruppo classe che segue gli standard di iscrizione alle primarie italiane), hanno una probabilità maggiore di ricevere una diagnosi. Come se “l’immaturità fisiologica” di un bambino (sappiamo bene quanto e in che modo lo sviluppo delle funzioni esecutive non seguano una crescita lineare ma continua e differenziabile in ogni individuo ed in relazione a mille variabili ambientali) sia stata trasformata in una discrepanza degna di essere etichettata come un disturbo, una malattia da curare (Morrow et al. 2012, Bruchmuller et al. 2012).
E qui stiamo analizzando la dimensione infantile, nell’adulto la faccenda diventa ancora più complessa e intricata. Ma ho poca esperienza dei processi di diagnosi e cura dell ADHD nell’adulto e sarebbe fruttuoso con un confronto con i coleghi ce se ne occupano in prima persona.
Un altro punto che vorrei toccare, manifestando un evidente critica, è l’atteggiamento (forse meglio appiattimento) su una clinica orientata oltre modo, al positivismo scientifico che ha accompagnato la psichiatria (e quindi aimè la psicologia) in questi ultimi vent’anni. Una visione probabilmente spinta e supportata dagli enormi progressi e straordinarie conoscenze legate allo sviluppo delle neuroscienze. Scoperte e ricerche riportare nel mondo della clinica con, oggi possiamo dirlo(?), un certo azzardo. Sembra che ad un certo punto il modello biomedico avesse un’estrema necessità di farsi notare e di ritagliarsi uno spazio privilegiato nel mondo della salute mentale in età pediatrica. L’ADHD (non solo purtroppo) sembra sia stata una ghiotta occasione. Per anni ci è stata proposta la versione, riduzionistica e parcellizzata, che difficoltà di concentrazione, impulsività e discontrollo fossero direttamente legati a evidenti e chiari deficit neurobiologici. Questa narrazione biomedica ha e sta avendo un impatto devastante nel campo della salute mentale soprattutto in età evolutiva, con ricadute e derive sociali e culturali pericolose (parafrasando Angelo). Un mese fa una mamma particolarmente in allarme e preoccupata per la disorganizzazione del figlio di 9 anni diagnosticato in una Uonpia Lombarda mi ha chiesto se l utilizzo delle cellule staminali potesse essere efficace per la cura dell’ADHD (potrei raccontare molti episodi che denotano la confusione e la comunicazione del fenomeno ADHD legato esclusivamente ad una spiegazione biomedica). Forse possiamo permetterci di dire che un approccio unicamente biomedico ai disturbi mentali rimane al momento una presunzione ideologica non basata su dati scientifici. Non esiste un singolo fattore di rischio che spieghi l'ADHD. I recenti progressi rendono ancora più chiaro che la fisiopatologia dell’ADHD è più complessa di quanto suggerito dalla ricerca del ventesimo secolo (genetica, struttura SNC, chimica) e supportano l’idea che l’ADHD non è una condizione unitaria ma è invece un percorso finale comune di molti fattori biologici e ambientali. Come altri disturbi complessi, l'ADHD non è spiegato da nessun singolo fattore e non tutti coloro che sono esposti a specifiche avversità, a un determinato fattore di rischio, presentano un disturbo. Cosi come sappiamo che molti fattori di rischio possono interagire con un costituzionalità già fragile e impattare negativamente sulla disorganizzazione del bambino (a riguardo ricordo gli importanti studi sugli Adverse Childhood Experiences, ACEs). Si parla di multicomplessità, si deve tornare a parlare di modello Bio-Psico-Sociale, di psicologia evoluzionistica (una volta se ne parlava apertamente anche tra noi cognitivisti), di fattori di rischio e fattori di protezione. La complessità del bambino inserito in un contesto relazionale (attaccamento-accudimento), che si interfaccia con un contesto sociale e culturale spesso disarmonico (erosione dei legami comunitari) e tossico per uno sviluppo equilibrato (stress genitoriale, impatto tecnologie-device).
Ci sarebbe poi il problema del trattamento, solo un accenno al fatto che gli interventi educativi/riabilitativi sono interventi necessari ma non sufficienti al sostegno verso un integrazione del bambino in armonia con i differenti ambienti di vita. Qual è quindi il ruolo e la valenza di un intervento psicoterapeutico, qual è il suo surplus? E l’intervento farmacologico? Quando è un intervento basato sull’uso razionale del farmaco? Quando osserviamo un giusto e corretto equilibrio fra il trattamento farmacologico e quello non farmacologico? Quanti trattamenti purtroppo si basano esclusivamente su farmaco e quindi ricalcano un’esclusività dannosa del modello biomedico?
Alcuni, nel qui presente rotolone, accennavano agli importanti studi sul trauma (Van Der Kolk), che possono aiutarci ad illuminare il fenomeno del discontrollo, dell’impulsività. Altri riportavano le importanti considerazioni di D.Siegel sul concetto di “neurobiologia interpersonale”. Sicuramente altri studi e riflessioni e soprattutto l’esperienza del clinico, possono aiutare a rivedere e ripensare il concetto di ADHD, di discutere e portare suggestioni sul fenomeno complesso ed eterogeneo delle difficoltà di autocontrollo nella società moderna e su questa “disattenzione” di massa. Penso, come Angelo, che sia necessario scendere in campo e provare ad incontrare i bambini e le loro famiglie con uno sguardo differente, ampio e curioso. Uno sguardo che ci porti oltre le diagnosi e i trattamenti protocollati, uno slancio verso la complessità dei fenomeni umani e analisi su più livelli che possa includere fattori cognitivi, comportamentali, ambientali, sociali e biologici. Ripensiamo insieme l’ADHD, ripensiamo insieme la clinica.
Un caro saluto a tutti i colleghi, spero a presto
Claudio Bissoli